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Benjamin Disraeli: il potente mago


Il grande uomo degli “ebrei d’eccezione” fu Benjamin Disraeli. Egli capì che era molto più eccitante per sé e per gli altri e molto più utile per la sua carriera, fari risaltare la sua condizione di ebreo, vestendosi in modo diverso, adottando una strana pettinatura e usando forme strane di espressione ed eloquio. Cercò di farsi ammettere nell’alta società con passione e sfacciataggine.
Disraeli veniva da una famiglia completamente assimilata; tanto che il padre, un gentiluomo illuminato, l’aveva fatto battezzare perché voleva assicurargli la possibilità dei comuni mortali. Egli aveva scarsi rapporti con la società ebraica e non sapeva nulla della religione e dei costumi del suo popolo.
Si rese conto più degli altri ebrei che la condizione di ebreo poteva essere di vantaggio oltre che d’ostacolo.
Sapeva anche che in nessun altro luogo gli ebrei avrebbero avuto buone carte da giocare come nei circoli che avevano pretese esclusiviste e discriminatorie: proprio perché i circoli dei pochi, d’accordo con la folla, consideravano l’ebraicità un delitto, questo “delitto” poteva essere trasformato in qualsiasi momento in “vizio” attraente.
Fu il suo virtuosismo nel gioco sociale che gli fece scegliere il partito conservatore, che gli guadagnò un seggio in parlamento, il posto di primo ministro e, non meno importanti, la duratura ammirazione della società e l’amicizia di una regina.
Nella sua qualità di battezzato, non fu mai naturalmente il portavoce ufficiale di una comunità, ma in ogni caso fu l’unico ebreo della sua specie e del suo secolo, che cercò, per quanto sapeva, di rappresentare politicamente il popolo ebraico.
Quando Disraeli fece appello a un “orgoglio di razza da contrapporre a un orgoglio di casta”, sapeva bene che la condizione sociale degli ebrei, qualunque cosa se ne potesse dire, dipendesse esclusivamente dal fatto della nascita, e non da un’attività.
Il giudaismo, l’appartenenza al popolo ebraico, degenerò in un semplice fatto di nascita; in origine esso aveva implicato una religione, una nazionalità, un bagaglio di memorie e di speranza.
L’idea di un potere mondiale ebraico accompagnò Disraeli per tutta la vita, solo che le forme da lui attribuite a tale potere mutarono col crescere della sua esperienza politica. Nel suo primo romanzo (Alroy) egli espose il piano di un impero ebraico in cui gli ebrei avrebbero assunto la posizione di casta dominante. Nel romanzo Coningsby, egli abbandonò l’idea dell’impero ebraico e tracciò un fantasioso quadro del mondo, in cui il denaro ebraico decide dell’ascesa e della rovina di dinastie e imperi e domina sulla diplomazia.
Disraeli si convinse che il gruppo di banchieri ebrei costituisse una società segreta che, all’insaputa d i tutti, teneva in pugno i destini del mondo.
E’noto che la credenza in una congiura ebraica, ordita da una società segreta, ebbe il massimo valore propagandistico per l’antisemitismo. Disraeli odiava l’eguaglianza politica alla base dello stato nazionale e temeva per la sopravvivenza degli ebrei in tali condizioni. Non fu in fondo colpa di Disraeli se la tendenza che aveva contribuito alla sua genuina popolarità, la disposizione della buona società come della folla a lasciarsi entusiasmare da idee razziste, condusse nello spazio di poche generazioni all’immane catastrofe del suo popolo.

Tratto da LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO di Antonino Cascione
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