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I compiti del critico nell'attività interpretativa



La prima domanda che sembra giusto porre è se siamo sicuri che l’attività interpretativa si esaurisca nella pratica di reperimento di significati, delineazione dei temi e riapertura dei medesimi. Qui non si vuol negare valore alle risorse intellettuali dell’interprete; semplicemente si vuole stabilire una priorità tra procedure spersonalizzanti e talento individuale, capire quali dei due viene per primo. È una questione di gerarchia più che di primato assoluto.
Critici come Canova e Bruno considerano l’istituzione nei termini di qualcosa ingobrante , poco rigoroso, in preda alle idiosincrasie individuali molto più di quando non lo sia il singolo critico, il quale, se è preparato – per Bruno – e creativo – per Canova – o possibilmente tutte e due le cose insieme, primeggia rispetto all’istituzione. La comunità di appartenenza è quindi in un caso costituita da individui colpiti da sindrome del giudizio affrettato, nell’altro semplicemente lo sfondo trascurabile rispetto al quale il critico di talento è destinato ad emergere.
È bene rimarcare che la posizione dei due non va affatto confusa con il soggettivismo: essi non affermano che l’interprete può dire ciò che gli pare in totale libertà, ma piuttosto sembrano voler dire che la libertà è qualcosa che si conquista proprio attraverso l’esercizio rigoroso, dove questo rigore può essere l’effetto di elementi variabili – l’adesione puntuale di un metodo, l’anti-soggettivismo, o la capacità del bricoleur intellettuale di creare connessioni ardite ma credibili tra i film e aspetti credibili del reale.
Il critico non può tutto, può ciò che le sue capacità gli concedono di potere.
L’istituzione non è un brusio di fondo trascurabile, ma la conditio sine qua non di ogni atto di creatività. Prima si da un campo di enunciati possibili, di norme di comportamento, poi si possono definire i casi di trasgressione, i punti di legittima forzatura.

Tratto da CRITICA CINEMATOGRAFICA di Nicola Giuseppe Scelsi
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