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Metz : l'irrealtà del racconto

Metz : l'irrealtà del racconto



Metz intende dimostrare che, anche quando presenti analogie col mondo reale, il racconto ne differisce radicalmente, perché è una sequenza temporale limitata nel tempo, strutturata in funzione di un inizio e di una fine, ma soprattutto perché è raccontata da qualcuno, proferita da un narratore. Che il racconto sia dotato dello statuto di discorso, ha come conseguenza immediata quella di irrealizzare la cosa narrata: certamente esistono numerosi tipi di storie vere (il racconto quotidiano che il marito fa alla moglie della propria giornata; la Storia con la “s” maiuscola, che descrive gli avvenimenti che hanno sconvolto un secolo; la storia con la “s” minuscola, vista dal lucernario del telegiornale), ma sono affette da irrealtà perché tengono il mondo a distanza; se si considera che il mondo si caratterizza dalla sua presenza qui e ora(hic et nunc), il racconto si distingue da esso perché è sempre nel segno del dopo e dell’altrove. I mezzi di comunicazione del ventesimo secolo oppongono tuttavia un’obiezione corposa a questa assimilazione del racconto al passato: la diretta, radiofonica o televisiva; ma Metz risponde che ogni servizio giornalistico in narrazione simultanea introduce uno scarto spaziale ponendo l’avvenimento come proveniente da un altrove, e anche il manifestante che ascolta alla radio le notizie dell’azione alla quale partecipa distingue dal racconto come discorso, che ascolta, e la realtà, che vive.
Che il racconto non sia il mondo, che verta su delle scelte e che sia filtrato dal giudizio di coloro che lo fanno non impedisce che, quando non si cerchi di ingannarci sul modo di enunciazione, recepiamo alcuni racconti come di finzione e altri, se non come veri almeno come fattuali, cioè rinvianti a fati realmente accaduti.: se la distanza temporale fosse una sorta di strumento di misura della finzione, bisognerebbe ammettere allo stesso modo che le testimonianze diffuse dal telegiornale sono meno fittizie di quelle proposte trenta anni dopo l’avvenimento. Il criterio della distanza temporale o spaziale non è quindi adeguato a cogliere la natura della finzione; infatti, il distanziamento temporale non prova che il racconto sia meno fedele che nella diretta, dato ci sono delle persone che deformano sempre ciò che vedono, mentre altri conservano un ricordo esatto di quello che hanno vissuto e lo riferiscono più fedelmente. La deformazione della realtà è molto difficile da misurare: allo stesso modo in cui una statua è diversa a seconda dell’angolazione dalla quale la si guarda, la realtà non può ridursi ad un punto di vista unico, con il quale confrontare tutti gli altri; la deformazione che il discorso verbale o visivo inevitabilmente introduce non deve essere confusa con l’invenzione, pratica questa che appartiene alla finzione. Coloro che affermano che ogni racconto è fittizio condividono con coloro per i quali l’immagine è finzione un uguale concezione platonica della rappresentazione, per la quale la realtà è un modello, le cui imitazioni(mimesis), verbali o visive che siano, non sono altro che degradazioni; l’obbiettivo di queste due posizioni teoriche è trattare realtà e finzione come due blocchi eterogenei costituiti da oggetti del tutto distinti.

Tratto da RAPPORTO TRA REALTÀ E FINZIONE di Nicola Giuseppe Scelsi
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