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Dionigi Solomòs, poeta - 1800 -


Dionigi Solomòs è nato a Zante nel 1798 e a 10 anni, un anno dopo la morte del padre, il conte Nicolò, inviato in Italia secondo l’uso delle nobili famiglie. Rientrò a Zante nel 1818, dopo essere laureato in legge a Padova. Aveva 20 anni e Zante era sotto il protettorato inglese. Però dominava ancora la cultura italiana. Già dal 1821 provò a comporre in greco ottave, terzine, endecasillabi non rimati, e qualche poesia sentimentale (la “Biondina”), composta quasi per gioco. Al porto c’è gente: una biondina si imbarca. Parte per l’estero. Il poeta è presente, come per caso. Col fazzoletto in mano, la fanciulla saluta, sinché la nave con le sue vele spiegate a poco a poco si allontana e alla fine scompare sull’orizzonte. Piangono gli amici, piange anche il poeta… semplice e breve, la lirica ha una grazia leggera di canzonetta che la rese subito popolare.
Nel 1823 compose “Inno alla libertà”. L’Inno è una composizione epico-lirica in 158 strofe, divenute l’inno nazionale greco. Il lungo carme è un inno concepito nel tono degli inni sacri manzoniani. La libertà vi è salutata come una dea che rinata esce fuori dalle antiche tombe.
La vendicatrice dea si palesa al taglio della terribile spada, allo sguardo, che con impeto squadra la terra che è sua, quasi a rivendicare il possesso. Essa sveglia dal letargo gli schiavi. Alla sua vista gridano sino alle stelle le 7 Isole, occupate dagli angli. Il poeta rievoca i fatti di quei primi anni, come il blocco Corinto.
Il carme si conclude con un appello, quanto mai opportuno, alla concordia dei greci.
Sulla questione della lingua il poeta prese posizione apertamente nel 1824 con un dialogo, che potremo chiamare “De vulgari eloquentia”. Ne sono personaggi il poeta stesso, un Amico e un Pedante. La lingua del popolo è rivendicata alla sua naturale missione letteraria e politica.
Alla morte del Foscolo nel 1827, Solomòs ne lesse l’elogio in italiano nella Cattedrale latina di Zante. L’anno dopo, in seguito a dissensi col fratello Demetrio, si trasferì da Zante a Corfù, nuovo centro delle isole Ionie. È del 1829 “L’ode per una monaca” scritta per una dama che rivestì a Corfù “l’abito angelico”. Il carme tocca i toni più alti della poesia religiosa. Il dialogo tra gli angeli in cielo ha del sublime. Arditamente il poeta traspone la vicenda del piano sensibile e terreno al piano ultrasensibile e eterno, e ci fa ascoltare un coro di angeli osannati.
Per vincere la depressione che lo affliggeva si diede all’uso di forti bevande. Una congestione celebrale lo spense nel 1857.
Di rado pubblicava, non premuto da necessità contingenti. Usava comporre a memoria e recitare agli amici squarci delle composizioni a cui attendeva. I fedeli discepoli confidavano di trovare tra le sue carte quel capolavoro che avrebbe confermato la sua fama di poeta nazionale e legato il suo nome alla posterità. Grande fu la sorpresa e la delusione, quando tra i manoscritti del maestro non si rinvennero se non abbozzi e scarsi frammenti di opere incompiute. Pietosamente, il fedele Giacomo Polilàs raccoglieva in volume, nel 1859, la frammentaria eredità del poeta, tentando anche di ricostruire sugli appunti sparsi la trama delle varie composizioni.
Si sa anche che egli usava, prima di scrivere in greco, tracciare nella nostra lingua trame e annotazioni sulle opere in corso, e che il testo greco non nasceva di getto.
Tra gli abbozzi, il più antico è quello del “Lambros”, una cupa novella romantica alla maniera di Byron. Il poeta ne avrebbe avuto l’idea nel 1823 da un fatto di cronaca. Ci sono mostrati nel protagonista i rimorsi di una coscienza colpevole, che creano l’inferno nel suo stesso petto. Lambros è un valoroso che prende parte a una spedizione vendicativa di greci contro Alì Pascià. Oltre che da sentimento di patria, egli è spinto dal desiderio di vendicare un monaco arso vivo da Alì, e fratello di Maria, la donna che ha sedotto e con la quale da 15 anni convive. Nel campo greco si presenta un disertore per mettere in guardia i cristiani contro un’imboscata che loro stavano preparando. Compiuta la sua missione, il disertore, chiamato in disparte Lambros, gli confida di essere una donna e chiede di essere battezzata. Lambros si incapriccia della sconosciuta e riesce a sedurla. Da certi segni tatuati sulla pelle riconosce più tardi che la ragazza è sua figlia, una figlia che egli aveva abbandonato, come altri tre figli natigli dalla unione con Maria. L’intreccio non poteva concludersi se non tragicamente. Madre e figlia si annegano nel lago, mentre il padre fugge, inseguito dai rimorsi e dalle ombre dei tre figli spenti. Di questa trama truculenta ci restano poche celebri ottave che descrivono la festa di Pasqua e ripetono la preghiera dell’infelice Maria e la rabbrividente scena dei rimorsi di Lambros.

Tratto da LINGUA E LETTERATURA NEO-GRECA di Gabriella Galbiati
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