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Il marxismo


Marx annunciò il suo obiettivo nella prefazione del suo primo volume del Capitale: svelare la legge economica del movimento della società moderna. Il marxismo sostiene che il mutamento politico è la conseguenza della contraddizione fra un sistema sociopolitico statico e l’evoluzione dei mezzi di produzione agricoli o industriali. Ciascun sistema sociale ha una sua particolare struttura di classe, una struttura legale e una logica economica che si basano sui mezzi di produzione esistenti. L’evoluzione delle forze produttive produce una incompatibilità fra il sistema sociopolitico e i mezzi di produzione. Si verifica una rivoluzione sociopolitica per aprire la strada ad un sistema sociale e legale che sia compatibile con i requisiti di un ulteriore progresso economico.
Per Marx il sistema capitalistico è mosso dalla legge dell’accumulazione: i capitalisti, spinti dall’obiettivo del profitto e dalla proprietà privata dei mezzi di produzione sono costretti a massimizzare e ad accumulare il capitale. Il capitale si accumula sotto forma di forze produttive e nel momento in cui un’economia capitalista diventa matura, il tasso di profitto tende a diminuire e quindi a ritardare un ulteriore accumulazione di capitali e un ulteriore crescita economica. Questi sviluppi causano un costante impoverimento della classe lavoratrice, crescenti livelli di disoccupazione e una crisi generale dell’ordine capitalistico. È quindi la contraddizione tra il sistema sociopolitico capitalista e le forze di produzione di una società capitalista matura a causare il rovesciamento rivoluzionario della società stessa.
Fu poi Lenin, nel suo scritto “imperialismo-fase suprema del capitalismo” che formulò una teoria marxista del mutamento politico internazionale dell’era capitalista. Sosteneva la tesi che, data la tendenza generale del tasso di profitto a diminuire, le economie capitaliste avanzate si sforzano di arrestare questa diminuzione per mezzo dell’espansione coloniale e delle pratiche imperialiste. Questo bisogno insito nelle economie capitaliste di espandersi e di acquisire colonie oltremare allo scopo di acquisire il surplus di capitali spiega la dinamica delle relazioni internazionali fra queste economie e spiega anche l’imperialismo, la guerra e il mutamento politico internazionale. Il fulcro della teoria leninista è la cosiddetta legge dello sviluppo diseguale: in regime capitalistico non si può pensare a nessun’altra base per la ripartizione delle sfere d’interessi e d’influenza, delle colonie ecc., che non sia la valutazione della forza dei partecipanti alla spartizione, della loro generale forza economica, finanziaria e militare. Ma la forza dei partecipanti alla spartizione cambia difformemente giacchè in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese.  Sosteneva inoltre che, poiché le economie capitaliste crescono e accumulano capitale con ritmi diversi, un sistema capitalista internazionale non può mai essere stabile. A causa della legge dello sviluppo diseguale, dell’accumulazione del capitale e del conseguente bisogno di colonie, le economie capitaliste non sarebbero mai state stabili se non per brevi periodi di tempo. In ogni momento la distribuzione delle colonie tra gli stati capitalisti dipende dalla forza e dallo sviluppo relativi. Le economie capitaliste più avanzate disporranno quindi della maggior parte delle colonie. Man mano che si sviluppano gli altri stati capitalisti chiederanno una nuova divisione dei territori coloniali e vorranno modificare il sistema internazionale in accordo con la nuova distribuzione del potere. Queste pretese portano a guerre di divisione e ridi visione delle colonie fra le economie capitaliste. Nel sistema capitalista le guerre imperialiste sono endemiche e continueranno sino al rovesciamento del sistema stesso. Secondo Lenin, la legge dello sviluppo diseguale con le sue fatali conseguenze era divenuta operativa poiché il mondo si era fatto improvvisamente limitato. Per decenni le potenze capitaliste si erano potute espandere inglobando tutti i territori che non erano gia di proprietà di altri stati. Quando lo spazio aperto disponibile cominciò a diminuire, le potenze imperialiste entrarono sempre più in contatto e quindi anche in conflitto reciproco.
La legge del tasso di profitto decrescente può essere considerata un caso particolare della più generale legge dei rendimenti decrescenti. Secondo la formulazione degli economisti classici e neoclassici la legge dice che l’output di qualsiasi processo produttivo aumenterà con un tasso decrescente se la quantità di un fattore di produzione cooperante viene mantenuta costante mentre quella degli altri aumenta. Ciascun fattore di produzione deve quindi aumentare insieme agli altri se una economia vuole sfuggire alla minaccia dei rendimenti decrescenti. Da questa legge universale della produzione si possono ricavare 3 conclusioni generali:
A. L’aggiunta di un dato fattore di produzione ad un altro fattore costante provocherà un rapido aumento della produzione e quindi accelererà la crescita economica e il potere della società
B. In assenza di progresso tecnologico ad un certo punto la produzione aumenterà cin un tasso decrescente provocando una decelerazione della crescita economica a meno che non vengano aumentate le quantità di tutti i fattori
C. In conseguenza della legge dei rendimenti decrescenti, la curva della crescita economica di una società tende a seguire un andamento a S.

Secondo l’economia classica, il fattore critico che limita la produzione è la terra coltivabile. In questa prospettiva la crescita delle ricchezza economica della società è limitata dal rapporto uomo/terra e dalla disponibilità di una buona terra coltivabile. Ad un certo punto la densità della popolazione su questa terra e la decrescente qualità della terra messa in produzione fanno diminuire i rendimenti degli investimenti.

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