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La proposizione di nuove eccezioni, nuove prove e la modificazione della domanda di primo grado (lo ius novorum)


Le parti come hanno il potere di limitare l’oggetto del giudizio d’appello rispetto a quello del giudizio di primo grado, così possono, anche se entro limiti ristretti, ampliare il thema probandum ed il thema decidendum del giudizio d’appello (è il cosiddetto ius novorum).
In aderenza al principio del doppio grado di giurisdizione “non possono proporsi domande nuove”, e, se proposte, il giudice deve dichiarare “inammissibili” d’ufficio, cioè rigettarle per motivi di rito, lasciandone impregiudicata la riproponibilità in un separato processo.
Per esigenze di economia dei giudizi “possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa”; a queste deroghe espressamente previste dal legislatore la prassi ne ha aggiunta un’altra: la proponibilità in appello della domanda di restituzione di quanto corrisposto a seguito di esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado.
Lo ius novorum opera anche sul fronte delle eccezioni: “non possono proporsi eccezioni nuove che non siano rilevabili anche d’ufficio”; il legislatore segue la stessa regola adottata per le eccezioni nel giudizio di primo grado e quindi le eccezioni in senso stretto, che in primo grado sono precluse oltre il termine di cui all’art. 167 c.p.c., sono improponibili anche in appello; invece le eccezioni in senso lato, possono essere proposte dalle parti, anche per la prima volta in appello, fino al momento della precisazione delle conclusioni.
In ordine alle nuove prove l’art. 3453 c.p.c. prevede: “non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non avere potuto proporre nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi giuramento decisorio.”
È opportuno esaminare separatamente le singole parti:
- innanzitutto l’art. 345 c.p.c. tace del tutto quanto alla produzione di documenti.
I dati desumibili dall’iter parlamentare e gli orientamenti giurisprudenziali prevalenti portano a concludere l’analisi nel senso che nell’appello del nuovo rito ordinario i nuovi documenti devono ritenersi liberamente producibili;
- la subordinazione dell’ammissibilità di nuovi mezzi di prova la dimostrazione di non averli potuti proporre nel giudizio di primo grado per causa non imputabile, non è altro che l’applicazione al giudizio d’appello della rimessione in termini;
- la libera deferibilità del giuramento decisorio non pone il problema alcuno stante la natura tutta particolare di tale mezzo di prova;
- riguardo alle prove costituende il cuore dell’art. 345 c.p.c. finisce pertanto con essere il requisito dell’indispensabilità cui è assoggettata la loro ammissibilità.

La dottrina sembra nella sostanza avere rinunciato alla possibilità di individuare un metro unitario alla cui stregua ridurre la arbitrarietà e la discrezionalità insita nel criterio della indispensabilità.
L’esigenza che il processo sia strumento di giusta composizione delle controversie e quindi che le preclusioni in materia probatoria non siano tali da impedire un tale risultato ove possibile, inducono ad attribuire questo significato al requisito della indispensabilità: “un mezzo di prova è indispensabile allorché sia diretto a provare un fatto la cui esistenza o inesistenza sia stata dichiarata nella sentenza di primo grado non sulla base del meccanismo probatorio, ma sulla base della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova”; coerentemente al “valore” che anche nel rito ordinario assume la corretta ricostruzione del fatto ai fini della giusta composizione della controversia, proprio perché in primo grado sono previste preclusioni rigide in punto di richiesta di mezzi di prova, nel processo d’appello deve essere possibile “disporre l’assunzione di mezzi di prova ove ciò si riveli necessario, indispensabile, per risolvere la controversia sulla base dell’accertamento pieno dei fatti controversi e non sulla base di regole formali di giudizio”.
Così ricostruito, il sistema acquista ragionevolezza, e il giudice d’appello, ben lungi dall’essere titolare di un potere discrezionale ai limiti dell’arbitrarietà e comunque insuscettibile di controllo, diviene titolare di un potere del cui esercizio in senso positivo deve dare conto nella motivazione e su cui dovrebbe essere possibile il controllo in Cassazione.
Fermo restando il divieto di domande nuove, è da notare che il legislatore del 1990 tace del tutto in ordine alla possibilità o no di modificare la domanda in appello.
La dottrina e la giurisprudenza avevano sempre ritenuto ammissibile la modificazione della domanda appello, purché, per un verso, resti fermo il diritto fatto valere in giudizio così come individuato in primo grado al termine della prima udienza di trattazione e, per altro verso, si tratti di fatti rilevabili d’ufficio.
Se così non fosse si verrebbe a creare una plateale disparità di trattamento tra attore e convenuto: mentre quest’ultimo, infatti, potrebbe sempre allegare in appello nuovi fatti posti a fondamento di eccezioni rilevabili d’ufficio, si negherebbe all’attore l’analogo potere di allegare in appello fatti operanti ipso iure allo scopo di modificare la domanda.

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