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A scuola con il corpo


A scuola, tradizionalmente, si mira a risolvere l’osservazione in una faccenda puramente descrittiva, dove l’insegnante vede l’alunno come un soggetto estraneo a sé. Gli insegnanti finiscono così per insegnare senza dire niente di sé, lamentando un ascolto superficiale e passivo, e gli studenti si ritirano ai margini del processo formativo. Il mondo scolastico, che si vive attraverso le griglie di sapere, esaspera il senso di distanza e separatezza.
Negli anni ’70 era nato un approccio che tentava di rompere questa frammentazione della conoscenza, esprimendo l’esigenza di educare alla soggettività, chiedendo ai professori di interrogarsi e comprendersi nel processo. Nacquero nelle scuole i laboratori di pedagogia attiva, che chiedevano di esercitare l’intelligenza sulla concreta esperienza della realtà. Da qui nacquero i modelli di Maria Montessori e Baden-Powell. I laboratori prevedevano un collegamento tra le attività di studio e la riflessione sull’esperienza di vita, ricorrendo all’arte, alla scienza, la tecnologia.
A distanza di alcuni decenni, ci si chiede quale immagine del corpo noi adulti educatori siamo portati.
In educazione il corpo si connette indiscutibilmente con l’idea di cura, che evoca un contesto caldo, fatto di vicinanza, con un maestro mentore.
Foucault mostra come si sia assistito progressivamente al passaggio da una idea di cura al modello di stampo medico – riparativo. Con l’autore si nota anche l’idea dei corpi disciplinati dal potere e quanto il fare anima, l’educare la mente, sia collegato alla disciplina a cui vengono assoggettati i corpi.

La scuola offre ai bambini una frammentazione della conoscenza del mondo. La de contestualizzazione delle discipline trovano conferma nelle procedure metodologiche fatte proprie dalla prassi consolidata. Gli obiettivi sono definiti con largo anticipo e spesso si mostrano inadeguati, come inadeguate sono le azioni condotte.
I saperi così posti sono del tutto inadeguati per essere trasmessi, perché la questione dell’insegnare è oggi data da come trasformare le informazioni in conoscenza.
Oggi si sa poco di come i giovani apprendono,perché è raro che la scuola se lo chieda e lo chieda ai ragazzi. Andrebbe maturata l’idea e la consapevolezza che l’approccio autobiografico configuri concrete occasioni di educabilità cognitiva, di rivitalizzazione dei saperi.
Con l’autobiografia a scuola si intende creare occasioni per sviluppare nei ragazzi momenti di consapevolezza e autostima della propria identità; abituare gli studenti a prendere parola, ad ascoltarsi e ad ascoltare, meta riflettere sul loro rapporto col sapere e sui modi personali di ricordare; costruire insieme una modalità comunicativa circolare per imparare ad affrontare le questioni emergenti della classe e i conflitti; sperimentare la possibilità di comunicare attraverso i vari codici linguistici.
L’autobiografia è quindi una opzione teoretica e pratica in grado di offrire un consolidato contributo al processo di costruzione della nuova scuola. Nel narrare di sé realtà e finzione si compenetrano, si deve permettere l’accesso alla profondità della memoria senza cercare una verità assoluta. L’autobiografia, inoltre, chiama in causa la dimensione dello sguardo e dell’ascolto. Lo sguardo dà corpo alla relazione tra insegnante e allievo, sollecita alla scoperta del fatto che a furia di guardare si dimentica di essere guardati. Le possibilità narrative sono molto legate alle scelte procedurali. Una metafora eccellente per l’insegnante auto-biografo è quella del regista.

Tratto da PEDAGOGIA DEL CORPO di Adriana Morganti
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