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Non solo per sport – pensieri che rincorrono una palla


Il successo dello sport in età giovanile è dato dal prolungamento naturale nel tempo di quella spontanea motricità propria dell’approccio globale del bambino al mondo.
C’è oggi la necessità di rivedere l’epistemologia della dimensione educativa dello sport, cominciando col chiedersi a quale immagine dello sport si intende far riferimento. Lo sport educativo oggi condivide l’orizzonte di senso dello sport agonistico, sempre più esasperato e precoce, e ciò ostacola il costituirsi di una nuova professionalità educativa. Lo sport non è definibile a priori come un fatto educativo positivo, ma dipende dalle intenzioni, dalle modalità e dal contesto in cui si esprime.
Una pedagogia dello sport deve interrogarsi sul valore simbolico dell’attività fisica, sulla possibile elaborazione pedagogica dell’aggressività adolescenziale e sulla necessità di una prospettiva didattica centrata su una presa di coscienza del corpo.

La capacità di giocare è direttamente proporzionale alla capacità di relazionarsi in uno spazio e in tempo già determinati, dove si deve entrare e da cui si deve poi poter uscire. Alcuni bambini manifestano una difesa che li porta ad una fuga dal gioco. L’ansia può essere controllata riuscendo a capire che l’immagine che abbiamo di noi può avvalersi di una riorganizzazione dinamica continua, che la nostra identità preesiste e persiste alla durata del gioco.
Esiste però anche la fuga nel gioco: è quella della adesione a esso apprensiva, e irriducibile, il non poterne fare a meno. È una modalità di difesa dove ci si concentra solo sulle valenze competitive, si vuol competere per salvarsi vincendo.
Il gioco sportivo è la realizzazione di un sogno inconscio. Il gioco è l’espressione mascherata dai fantasmi che ossessionano il giocatore che manifesta così dei conflitti interni: i desideri profondi diventano tollerabili dopo il travestimento ludico. Il gioco è ambivalente, alla sua facciata positiva si contrappone un intrigo di tensioni aggressive e distruttive.
La rilettura critica della pratica sportiva può aiutarci a far emergere gli aspetti positivi: si deve mettere a distanza l’idea malata di sport, perché questo continui ad essere un grande dispositivo pedagogico (perché ci si può ritrovare una organizzazione di spazi e tempi, la presa sul corpo, l’uso di simboli e codici, l’allestimento dei rituali…).

Lo sport si presta alle manifestazioni aggressive, che sono per l’uomo spontanee ed ineliminabili. L’elaborazione pedagogica dell’aggressività si ha con il suo incanalamento verso mete socialmente accettabili per dare al bambino uno spazio di espressione e di una considerazione libera da pregiudizi da parte dell’adulto.
Nello sport inteso educativamente, si ha l’invito ai ragazzi a esplicitare verbalmente la rabbia liberata dall’attività sportiva che stanno svolgendo. Questa verbalizzazione rappresenta uno stimolo a riflettere su di sé attraverso il gioco, a nominare desideri e paure contenendo la scarica impulsiva per poi tornare al momento ludico e sperimentare modalità non distruttive di manifestazione dell’aggressività. Agli insegnanti e agli educatori tocca il difficile compito di inserirsi nella problematica attraverso una mediazione educativa che dia un senso al lavoro. Ogni gioco sportivo contiene al suo interno il gioco più importante delle dinamiche relazionali con cui si misura la crescita educativa.

Tratto da PEDAGOGIA DEL CORPO di Adriana Morganti
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