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Le caratteristiche della transizione


E' convincimento che la transizione si produce in un percorso a 3 fasi. La prima fase è caratterizzata da un periodo di recessione, che fa segnare un drastico calo della produzione e dell'occupazione, la seconda è contraddistinta da una generale ripresa dell'economia e l'ultima si segnala per una stabile e matura crescita dei settori produttivi, con rilevanti risultati soprattutto nel terziario.
Il tentativo di “modellizzare” in qualche modo il percorso di transizione, rimane la principale sfida nello studio dei cambiamenti economici di quest'ultimo decennio nei paesi dell'Europa dell'est. La letteratura teorica ed empirica ha contribuito a indicare i fattori principali di analisi con l'obiettivo di arrivare ad una qualche forma di “stilizzazione” dei determinanti della crescita dell'economie in transizione.
Una panoramica sulla transizione ci viene offerta dalla analisi di 3 aspetti centrali: “Il primo di questi è la liberalizzazione dei prezzi, il grado al quali i prezzi sono stati deregolamentati ed è stato consentito loro di garantire l'equilibrio sui mercati. Il secondo è la privatizzazione, il trasferimento delle imprese di proprietà pubblica a proprietà privata, i quali hanno l'incentivo di massimizzare il profitto e di rispondere ai segnali di mercato. Il terzo è il controllo macroeconomico, termine che però presenta connotazioni varie”.
Nella tassonomia presentata da Fischer e Gelb, emergono altri importanti fattori come:
- la ridefinizione del ruolo dello Stato, garante di una struttura legale stabile, dei diritti di proprietà e occasionalmente correttore dell'imperferzioni del mercato,
- la liberalizzazione del sistema del commercio con l'estero.
Dopo i fatti del 1989 si apre un lungo dibattito sull'individuazione delle priorità di intervento e quindi sulla definizione del più valido programma di teoria alla stabilizzazione macroeconomica, attraverso il controllo dell'inflazione, e successivamente facendo seguire ad essa gli interventi sulla liberalizzazione dei prezzi e le necessarie riforme strutturali.
Gli sforzi compiuti per ridurre il controllo centrale e per decentrare molte aree del sistema economico non hanno generato in una fase iniziale effetti significativi sul sistema in generale e sulle imprese in particolare. Gli anni 1989-1991 sono anni di pesante declino dell'attività economica, quella che Kornai definisce “recessione da transizione”.
Il modello si sviluppo centrato su componenti autartiche viene sostituito da un processo di trasformazione strutturale avente l'obiettivo di migliorare la stabilità e la robustezza del sistema economico nonché di innalzare la competitività internazionale.
Ma le cause della recessione sono molteplici. La rottura delle vecchie relazioni commerciali e la nuova struttura dei prezzi relativi e gli aggiustamenti strutturali costituiscono gli shock più importanti. La brusca caduta dei rapporti trai PECO e l'URSS genera ripercussioni negative sia dal lato della domanda che dell'offerta, perchè se da un parte penalizza il flusso delle esportazioni verso l'URSS e peggiora le ragioni di scambio, dall'altra determina una ridotta disponibilità di beni e di materia prime per l'industria.
Le conseguenze del processo di ristrutturazione del sistema economico sono essenzialmente 3:
a) il calo della produzione;
b) diminuzione dell'occupazione;
c) aumento dell'inflazione.

Per quanto riguarda il PIL è opportuno precisare che il confronto con i dati rilevati prima della transizione è alquanto problematico. Tra il 1990 e il 1993 la quasi totalità dei PECO conosce una significativa riduzione delle produzioni di beni e servizi. La contrazione appare particolarmente marcata in quei paesi che presentano un forte legame di dipendenza con l'ex economia sovietica, come nel caso della Bulgaria e delle 3 Repubbliche baltiche.
Per i paesi dell'Europa centrale, la recessione, iniziata nel 1990, è terminata nel 1992, con drastiche riduzioni della produzione e tagli all'occupazione. La Romania e la Bulgaria, dopo aver superato la crisi del primo biennio, si trovano a dover affrontare un secondo arresto tra il 1997 e il 1999. In questi tre anni, la Romania registra un calo del PIL pari al 6.1 % annuo, la Bulgaria in 2 anni del 8.5% annuo. Per i paesi dell'ex Unione Sovietica, in generale, la recessione termina tra il 1996 e il 1997, mentre per la Russia, dopo la profonda crisi finanziaria, occorre attendere qualche anno. I più colpiti sembrano comunque essere stati proprio la Russia, l'Ucraina e la Moldavia, paesi con la maggiore popolazione e dipendenza dal commercio intra-URSS, che hanno, peraltro, sofferto dell'imposizione di embarghi sul commercio e affrontato dure guerre civili.
Durante il periodo di transizione anche l'occupazione sperimenta una considerevole caduta. La fase di ristrutturazione comporta un mutamento della domanda relativa, nel senso che la riconversione delle imprese statali, alle quali era demandata gran parte della produzione, determina un forte calo della domanda di lavoro. La crescita della domanda nel settore privato, ancora in fase di espansione, non riesce però a compensare la riduzione dell'occupazione che si era verificato nel comparto statale.
A differenza del precedente sistema di economia centralizzata, i tassi di partecipazione si sono notevolmente ridotti e si attestano all'incirca intorno a quelli registrati dall'UE. Come affermano Boeri e Coricelli, il fenomeno è da attribuire non solo ai licenziamenti avvenuti nelle industrie di Stato, ma anche e soprattutto a “rinunce spontanee ed abbondanti del lavoro stimolati da schemi che hanno scientemente ridotto l'offerta di lavoro in questi paesi, quali i prepensionamenti, l'accesso a maglie larghe alle pensioni di invalidità, la fornitura di assistenza sociale.
I primi interventi sulle economia in transizione hanno riguardato l'attuazione di programmi e piani di stabilizzazione , con l'intento di ridurre l'elevato tasso di inflazione e costituire relazioni positive con la crescita. Superata la fase iniziale, il programma di stabilizzazione posto in essere dai PECO riduce in maniera notevole il tasso di inflazione, riportandolo su livelli via via decrescenti, compatibili con la media dell'UE e con il parametro fissato a Maastricht. Politiche monetarie e fiscali restrittive, controllo della dinamica salariale e un nuovo e stabile regime dei cambi costituiscono le scelte prioritarie per assicurare il controllo dell'inflazione e delle aspettative inflazionistiche. Si dà sostanza ad una linea teorica secondo cui l'inflazione produce conseguenze negative sotto il profilo dell'allocazione delle risorse, della volatilità e dell'elevatezza dei tassi di interesse, o della redistribuzione del reddito a danno delle categorie più povere e dell'effetto negativo sugli investimenti.
Se dunque i primi anni della transizione si contraddistiguono per calo della produzione e dell'occupazione con altissimi livelli di stabilizzazione macroeconomica, accompagnati da importanti assestamenti strutturali, che si esprimono nella modernizzazione del settore industriale e nello sviluppo dei servizi.

Tratto da POLITICA ECONOMICA di Alessandro Remigio
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