Skip to content

La PEX


L’abbandono del medito del credito d’imposta, e l’adozione  di quello di quello dell’esenzione dei dividendi, per contrastare il fenomeno della doppia imposizione economica sui redditi delle società di capitali ha posto la premessa per un intervento sul versante delle plusvalenze.
L’esenzione delle plusvalenze su partecipazioni è infatti presente nella legislazione tributaria di molti del Paesi dell’Ue che ricorrono al metodo dell’esenzione dei dividendi.
L’idea di fondo è che le plusvalenze siano una ricchezza omogenea agli utili, e degli utili è pertanto ragionevole che condividano il regime di esenzione, quale rimedio alla doppia imposizione.
Occorre però osservare che le plusvalenze su partecipazioni possono essere ricondotte fondamentalmente a tre componenti: una componente di utili già emersi, una componente di utili non ancora emersi (plusvalenze latenti su singoli beni o sull’azienda ne suo complesso), e che non necessariamente emergeranno; una componente speculativa (legata al fatto che la partecipazione garantisce il controllo della società partecipata). Se la per prima componente (utili già emersi) il problema della doppia imposizione è concreto ed attuale, per la seconda è eventuale e futura, per la terza è inesistente, trattandosi di un plusvalore correlato allo specifico bene negoziato. Sgravare comunque l’intero ammontare delle plusvalenze significa pertanto andare oltre l’obiettivo di eliminare la doppia imposizione: l’esenzione potrebbe infatti coinvolgere anche importi che non sollevano affatto un problema di doppia imposizione.
Respingere l’esenzione integrale si rivelerebbe pertanto non solo inutile, in quanto, essendo presente in altri ordinamenti europei, è comunque a disposizione degli operatori economici nazionali mediante un’opportuna articolazione a livello internazionale dei gruppi societari (creando apposite società holding, spesso mediante scambi di partecipazioni attuati in regime di neutralità), ma altresì dannoso, poiché genera il forte rischio di comportamenti opportunistici da parte di questi soggetti: realizzo all’estero delle plusvalenze, senza tassazione, realizzo in Italia delle minusvalenze, con deduzione.
Nonostante questo, la scelta per l’integrale irrilevanza delle plusvalenze, operata dalla riforma, è stata rapidamente ritrattata. Nel corso del 2005 la misura dell’esenzione è stata ridotta al 91 %, e quindi, a partire dal 2007, all’ 84 %. Con la legge finanziaria per il 2008, e a partire dal 2008, è stata nuovamente innalzata, attestandosi al 95 %. Se il socio è un imprenditore individuale o una società di persone, la percentuale di esenzione, originariamente fissata nel 60 %, è ridotta, a partire dal 2009, al 50,28 %.
La riduzione si connette all’abbassamento al 27,5 % dell’aliquota ires, disposto, a partire dal 2008, dalla legge finanziaria per tale anno, e deriva dall’esigenza di impedire a detto abbassamento di produrre una contrazione di gettito per l’Erario: il minor prelievo in capo alla società è stato dunque controbilanciato incrementando quello in capo ai soci.
L’esenzione delineata dall’art. 87 interessa le plusvalenze patrimoniali relative alle partecipazioni nelle società soggette ires (residenti e non) e nelle società di persone, escluse le società semplici, nonché agli strumenti finanziari assimilati alle azioni e ai contratti di associazione in partecipazione e di cointeressenza. Mentre l’esclusione dei dividendi si applica all’unica condizione che gli stessi non provengano da società domiciliate nei cosiddetti paradisi fiscali, l’esenzione delle plusvalenze è legata alla compresenza di ben quattro fattori: due di carattere soggettivo, riguardando la partecipazione, e due di carattere oggettivo, riguardando la partecipata. La presenza di queste condizioni crea un doppio regime di crea un doppio regime di circolazione delle partecipazioni (uno fiscalmente irrilevante ed uno fiscalmente rilevante) idoneo a generare arbitraggi (plusvalenze in esenzione, minusvalenza in deduzione) ai quali si è cercato di porre rimedio introducendo una complessa normativa in tema di dividend washing. Tale normativa, vietando la deduzione delle minusvalenze patrimoniali (realizzate nella cessione di partecipazioni che non godono dell’esenzione) e reddituali (realizzate nella cessione di partecipazioni non iscritte tra le immobilizzazioni finanziarie) sino a concorrenza dell’importo non imponibile dei dividendi distribuiti dalla partecipata nei 36 mesi precedenti alla cessione, intende colpire l’ipotesi della società che cede una partecipazione gravida di utili realizzando una plusvalenza esente ad un’altra società che incassa utili (esclusi al 95 %) e retrocede la partecipazione realizzando una minusvalenza deducibile.
Questa disciplina non rileva per le società che adottano i pci, in relazione alle quali la legge finanziaria per il 2008 ha scelto un diverso strumento per combattere il fenomeno. Per queste società l’art. 110 dispone infatti che il valore fiscalmente riconosciuto delle partecipazioni possedute per un periodo inferiore a quello richiesto dal regime in esame, ma dotate degli altri requisiti per fruirne, è ridotto dei relativi utili percepiti durante il periodo di possesso per la quota esclusa dalla formazione dell’imponibile. La riduzione del valore fiscalmente riconosciuto impedisce di conseguire, nell’eventualità di una successiva alienazione della partecipazione, un differenziale negativo deducibile, a fronte del dividendo non imponibile ricevuto, e quindi di realizzare l’arbitraggio tra provento non imponibile e onere deducibile.
Il primo requisito soggettivo, indicato nell’art. 87 c. 1 è l’ininterrotto possesso della partecipazione dal primo giorno del dodicesimo mese precedente a quello della sua cessione. Il termine di 12 mesi, previsto dalla riforma del 2003, era stato elevato a 18 nell’ambito della stretta al regime attuata nel 2005. la durata originaria è stata ripristinata dalla legge finanziaria per il 2008.
Se la partecipazione è stata acquistata in date diverse si considerano cedute per prime le quote acquistate per ultime. Nel caso in cui solo una quota della partecipazione ceduta abbia maturato il periodo minimo di possesso richiesto, la plusvalenza realizzata deve essere suddivisa in due parti, quella riferibile alla quota munita del requisito in esame, che è esente (naturalmente ricorrendo gli altri presupposti), e quella riferibile alla quota non munita del requisito, che deve invece concorrere alla formazione del reddito.
Il secondo requisito soggettivo, fissato dall’art. 87, è la classificazione della partecipazione nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso, ancorché approvato successivamente alla cessione. L’assunzione del dato emergente dal primo bilancio riflette l’esigenza di impedire riclassificazioni a ridosso della cessione meramente strumentali all’ingresso (nel caso di plusvalenze latenti) o all’uscita (nel caso di minusvalenze latenti) dal regime.
I due requisiti soggettivi paiono riconducibili alla stessa logica, quella di assegnare una valenza scriminante (causa di non punibilità di un reato) alla sussistenza di un legame economico durevole tra partecipante e partecipata, dal quale nasca la presunzione di una relazione tra gli utili conseguiti dalla società partecipata e la plusvalenza realizzata nella cessione della partecipazione.
Il primo dei requisiti oggettivi è la residenza della partecipata in uno stato non incluso nella lista degli stati e territori a regime fiscale privilegiato stilata ai sensi dell’art. 167. Per evitare manovre sulla residenza in prossimità della cessione, questa condizione deve ricorrere al momento del realizzo ininterrottamente dall’inizio del terzo periodo d’imposta anteriore al realizzo stesso, o, se successiva, dalla costituzione della partecipata. Evidente è la connessione tra questo requisito e la funzione di strumento di contrasto della doppia imposizione sugli utili societari della pex.
È previsto che, se la partecipata è residente in uno dei predetti stati o territori, o lo è stata per una porzione del triennio osservato, la residenza in uno stato diverso possa essere sostituita dalla dimostrazione, mediante l’esercizio dell’interpello che dalla partecipazione non sia stato conseguito, sin dall’inizio del periodo di possesso della partecipazione, l’effetto di localizzare il reddito in un paradiso fiscale. L’esito favorevole dell’interpello è legato alla dimostrazione che i redditi conseguiti dalla società partecipata (domiciliata in un paradiso fiscale) sono prodotti per almeno il 75 % in stati diversi da quelli qualificabili come paradisi fiscali, e sono stati, questi ultimi, assoggettati a tassazione ordinaria.
Il secondo requisito di ordine oggettivo è quello dell’esercizio, da parte della partecipata, di un’impresa commerciale secondo la definizione dell’art. 55. Anche questa condizione deve ricorrere al momento del realizzo ininterrottamente dall’inizio del terzo periodo d’imposta anteriore al realizzo stesso, o, se successiva, dalla costituzione della partecipata. L’apposizione della condizione in esame va dunque probabilmente interpretata in chiave antielusiva, quale disincentivo alla costituzione di società-contenitore, da utilizzare per trasferire singoli cespiti plusvalenti sfruttando l’esenzione prevista relative alle partecipazioni.
Senza possibilità di prova contraria, si presume che il requisito considerato non sussista relativamente alla partecipazione in società il cui patrimonio è prevalentemente costituito da beni immobili diversi dagli immobili alla cui produzione e al cui scambio è diretta l’attività d’impresa e dagli impianti e fabbricati utilizzati direttamente nell’esercizio dell’impresa. Per stabilire la ricorrenza di questa condizione non rilevano i valori contabili ma quelli correnti. Occorre pertanto confrontare il valore corrente dei predetti immobili con quello di tutte le attività della partecipata, compreso l’avviamento.
Se il realizzo interessa le partecipazioni in una società la cui attività consiste in via esclusiva o prevalente nell’assunzione di partecipazioni (holding), le condizioni oggettive descritte (non residenza in un paradiso fiscale e commercialità per il triennio precedente) devono essere riferite alle sue partecipate, e si verificato quando ricorrono per le partecipate che rappresentano la maggior parte del suo patrimonio. Anche ai fini di questo accertamento, il valore del patrimonio non deve essere misurato utilizzando i valori contabili ma secondo quelli correnti.
La pex si applica altresì, e sempre che ne ricorrano i presupposti, alle somme e al valore normale dei beni ricevuti a titolo di ripartizione delle riserve di capitale per la parte che eccede il valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione, anche nell’ipotesi di recesso, esclusione, riscatto, riduzione del capitale per esuberanza o liquidazione. Detta eccedenza, qualificata come utile di partecipazione dall’art. 47, subisce nell’ambito del reddito d’impresa una riclassificazione nel campo delle plusvalenze patrimoniali.

Tratto da MANUALE DI DIRITTO TRIBUTARIO di Andrea Balla
Valuta questi appunti:

Continua a leggere:

Dettagli appunto:

Altri appunti correlati:

Per approfondire questo argomento, consulta le Tesi:

Puoi scaricare gratuitamente questo appunto in versione integrale.