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Il modello del governo di partito


Con la centralità assunta dal partito politico, quale agenzia non eludibile per raccogliere e trasmettere la domanda politica, si raggiunge un inedito quadro istituzionale entro cui il sistema partito qualifica la forma di governo.
Osteggiato a lungo dalle costituzioni liberali dell’800, il partito conquista nel tempo margini sempre più ampi di manovra nella società e nelle istituzioni. La politica nel ‘900 trova proprio nel partito il suo attore più versatile, deciso a recitare un ruolo di prim’ordine entro i sistemi pluralistici di rappresentanza.
Il partito controlla le candidature, assicura la disciplina e la coesione dei gruppi parlamentari, fa del governo una pura emanazione di “ministri di partito”.
Con l’identificazione completa del deputato con il partito e il suo programma, il Parlamento diventa anche la sede di un permanente confronto politico tra attori organizzati e disciplinati, oltre che organismo preposto alla confezione della legge. Al pari degli organi rappresentativi, il partito è un’istituzione sociale richiesta dal bisogno di mediare in forme nuove la sussistente separazione tra una sfera che produce merci attraverso scambio di merci e un ambito specializzato che decide attraverso norme giuridiche.
Per cogliere la fenomenologia della politica degli interessi, più che alla nozione classica di rappresentanza, occorre guardare al concetto di mediazione, che designa la rete di rapporti nei quali un ruolo attivo è svolto dalle organizzazioni che invocano negoziazioni, scambi. Quando le parti sociali possono codeterminare gli indirizzi essenziali della politica economica si viene a delineare un sistema politico “a due livelli con un sottosistema parlamentare e uno corporativo”. I meccanismi istituzionalizzati di tutela degli interessi, le pratiche di mediazione concertate dalle organizzazioni collettive, impiantano una “democrazia per procura, post-individualistica”. Per un verso, la democrazia apre ai grandi interessi collettivi ascoltando gruppi organizzati capaci di sollecitare una produzione giuridica nella quale la forma del contratto i affianca a quella della legge. Per un altro, i gruppi organizzati non vengono solo ascoltati,ma assumono anche un’autentica potestà normativa che aggira talvolta le stesse attribuzioni istituzionali della rappresentanza. L’ondata neoconservatrice ritiene di assicurare la governabilità del sistema azzerando la concertazione e recuperando la decisione e il principio di maggioranza con il ricorso al decreto d’urgenza o all’intervento autoritativo nelle relazioni sociali. Il modello di negoziazione triangolare ritiene invece di accorciare il divario tra strutture della rappresentanza e azioni collettive portatrici di interessi diversificati con leggi provvedimento concordate con le parti sociali. Entrambe le prospettive operano con misure tampone e risultano refrattarie al compito di fissare norme destinate a durare e non semplici leggine accidentali affidate al consumo immediato.
Non è la crisi formale della rappresentanza, dovuta all’oscuramento delle prerogative del Parlamento, a determinare la crisi della grande politica soffocata da un eccesso di legislazione minuta e di decretazione autoritativa. E’ piuttosto il prevalere di uno stile cognitivo pragmatico e corporativo, che fissa interessi statiti ed esclusivi, a oscurare il rendimento del Parlamento, a renderlo incapace di trascendere le cerchie particolari e di vestire con diritti nuovi le domande sociali.

Tratto da RAPPRESENTANZA POLITICA E GOVERNABILITÀ di Laura Polizzi
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