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Capitolo VII: la quies contemplationis

A questo punto l’anima del viator, giunta nella sesta tappa a contemplare realtà che non si possono in alcun modo rinvenire nelle creature ed eccedono ogni capacità indagatrice dell’intelletto umano, è chiamata a trascendere, oltre che il mondo sensibile, anche se stessa. In questo passaggio Cristo è «via e porta» (Gv. 14, 6; 10, 7) e solo chi rivolge a lui completamente lo sguardo, con fede, speranza e carità, potrà compiere la sua «pasqua», ossia il suo «transito». Nel testo c’è un chiaro riferimento all’opera salvifica effettuata da Cristo attraverso la croce. La verga stessa di Mosé diventa una metafora della croce: come la verga di Mosé, aprendo le acque del Mar Rosso, diventa strumento di salvezza per il popolo ebreo, che veniva così sottratto alla schiavitù degli egiziani e condotto alla terra promessa, così la croce diventa il simbolo della salvezza definitiva portata da Cristo che segna il passaggio del popolo cristiano dalla schiavitù del peccato alla libertà della grazia.

È opportuno notare come, nelle sei tappe precedentemente descritte, sia Dio a porre l’uomo nella condizione di ascendere al divino, illuminando le sue facoltà conoscitive con la sua luce. Ma in quest’ultima tappa è solo Dio ad avere l’iniziativa: l’uomo, più che altro, collabora ad essa non più attraverso l’operare delle sue facoltà (poste ormai di fronte a realtà che eccedono le loro capacità), ma per mezzo del totale abbandono a Dio nell’affectus. Questo stato è mistico e segretissimo e «nessuno lo conosce all’infuori di chi lo riceve» (Apoc. 2, 17), né lo riceve chi non lo desidera, né lo desidera chi non è infiammato dal fuoco dello Spirito Santo.

Messe da parte le facoltà dell’anima, che non possono penetrare una realtà che trascende infinitamente le sue capacità, l’unione mistica con Dio si compie nella tenebra e nel silenzio.

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