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Lo scontro tra theologi e philosophi

Altro importante nodo nevralgico da sciogliere per dipanare l’intricata matassa del XIII secolo è quello che riguarda il conflitto tra theologi e artistae (o philosophi) suscitato dal diffondersi, nell’Occidente cristiano, delle traduzioni dei testi provenienti dalla sapienza greco-araba. Questo conflitto ha rischiato di mettere irrimediabilmente in crisi il rapporto che nei secoli precedenti vi era stato tra fides e ratio.

Nell’alto medioevo fides e ratio, ovvero verità rivelata e speculazione filosofica, conservano una certa unità di intenti tanto che Anselmo d’Aosta, monaco dell’XI secolo in cui la speculazione teologico-filosofica dell’alto medioevo raggiunge l’esempio più alto, può intraprendere senza troppe esitazioni un’indagine solo razionale sulla natura di Dio, perché la verità rivelata corrobora in ogni suo passo il cammino della ragione in quanto è presente sullo sfondo.

Nel XIII secolo, in pieno basso medioevo, questo rapporto si incrina a causa, come detto, della diffusione dei testi della filosofia greca, in particolare quelli di Aristotele, tradotti prima dall’arabo, poi dal greco, e della filosofia araba, in particolare quelli di Avicenna, ma soprattutto di Averroé, portavoce della cosiddetta dottrina della “doppia verità”, secondo la quale nel mondo esistono due ordini di verità, una da indagarsi tramite la filosofia, l’altra tramite la teologia. La lettura delle opere di Aristotele, quelle logiche innanzitutto, portava gli artistae, maestri della Facoltà delle Arti, a ritenersi autorizzati a imporre le regole fondamentali che ogni altra disciplina, compresa la teologia, è tenuta a rispettare se vuole che ai suoi enunciati venga riconosciuto valore scientifico. Inoltre, l’ampliamento del quadrivio con l’introduzione della Fisica aristotelica porta a un’estensione delle loro pretese di giudizio non solo sui dati visibili, ma anche sugli aspetti non visibili della realtà, tanto che essi si appropriano presto anche della Metaphysica e dell’Ethica, sulle quali reclamano il diritto di insegnamento.

È questa pretesa ad estendere il campo di indagine di propria competenza operata dagli artistae in virtù delle nuove sensazionali scoperte filosofiche che spinge i theologi alle prime plateali prese di posizione non soltanto nei confronti delle nuove fonti della scienza e della filosofia in genere e, in modo specifico, del corpus aristotelico, ma più in particolare nei confronti del tipo di utilizzazione che ne proponevano i loro colleghi delle Arti. Infatti, il vero problema non era costituito dai testi aristotelici in sé: non mancano infatti alti esempi di ripresa delle dottrine aristoteliche, rilette e interpretate in chiave cristiana, compiute da theologi quali il francescano Odo Rigaldi, o il domenicano Alberto Magno. Il problema era più che altro costituito dal fatto che l’afflusso di tali conoscenze scientifiche legittimava i filosofi ad estendere le proprie pretese di indagine anche a quei campi che da sempre costituivano il territorio privilegiato delle speculazioni dei teologi, ovvero l’etica e la metafisica. Questo perché i filosofi non consideravano la teologia un sapere scientifico, in quanto essa comunica sulla base di verità che possono essere condivise solo per fede. La filosofia è invece una scienza i cui principi sono apodittici, ossia evidenti di per sé, e universali, ossia generalmente condivisi.

Si pone dunque il problema di rivendicare la superiorità del sapere teologico rispetto al sapere filosofico e di definirne la natura scientifica: ci proveranno innanzitutto Odo Rigaldi e Alberto Magno, ma sulla stessa strada si immetteranno anche Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio.

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