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Jean Bodin

Il movimento dei "politici"
Il pensiero di Bodin è impegnato nella ricerca degli strumenti intellettuali e pratici per superare le tensioni religiose e sociali che minacciavano di scardinare in Francia le basi stesse dell'ordine politico. Non vi è in lui quasi traccia delle posizioni dei pensatori ugonotti e la sua esigenza è quella di rafforzare il potere politico sia per garantire la governabilità della nazione, sia per tutelare con equità la stessa pluralità dei credi religiosi, impedendo loro di degenerare in sette e fazioni e di fomentare ribellioni e sedizioni. Non vi è in lui una professione di indifferentismo e di agnosticismo religioso ma è difficile comprendere a quale confessione andassero i suoi favori: egli ha avuto responsabilità nella monarchia cattolica ma per un certo tempo ha anche simpatizzato per Calvino, ha mostrato interesse verso il mondo ebraico e non ha nascosto certe propensioni verso il teismo. Ha scritto un'opera sulla religione, Colloquium heptaplomeres (Colloquio dei Sette Saggi) in cui si assiste ad una discussione fra un cattolico, un luterano, un calvinista, un mussulmano, un ebreo, uno che parla in nome del sincretismo religioso, un teista. In quest'opera Bodin non si sbilancia a favore di una o dell'altra fede e sembra piuttosto sostenere che in ogni vocazione religiosa autenticamente vissuta c'è un principio di verità e quindi una possibilità di trovare dei motivi accomunanti con altre fedi, specie se queste hanno avuto origine nella civiltà europea ed occidentale e possono perciò considerarsi componenti di una stessa storia religiosa. L'appartenenza di Bodin al partito dei "politici" non lo porta a sostenere le ragioni di una repubblica laica: la religione è da lui ritenuta essenziale per l'integrazione della società, per la stabilità politica, per la fede pubblica dei popoli ma appunto perché la religione è così importante, bisogna che il principe non si serva della forza per attirare i sudditi verso un partito confessionale. La guerra santa compromette la religione perché il fanatismo diventa matrice di sostanziale ateismo e ancor più compromette l'ordine sociale e l'efficacia dell'azione statale; la tolleranza riesce invece a garantire una coesistenza fra parti. D'altronde Bodin sa riconoscere l'importanza del dibattito e del confronto delle idee in ogni positiva acquisizione del sapere critico e dell'agire pratico. Per far finire le devastanti guerre di religione, si rivela politicamente vantaggioso concedere una certa libertà anche a culti diversi da quelli del sovrano o da quelli della maggioranza; per Bodin la tolleranza non sancisce un diritto degli uomini alla libertà religiosa ma è piuttosto uno strumento utile ai fini politici dello stato. Egli appartiene al movimento dei politiques, i quali intendono impegnare il sapere e l'agire politico nella rivalutazione di quelli che sono, per loro, gli elementi fondamentali dell'autorità: la capacità di deliberare e la sanzione. Il rapporto politico fondato sull'autorità dello stato deve essere riabilitato e assumere una sua superiorità rispetto ad altri sistemi di lealtà, compresi quelli religiosi. La politica deve essere perciò riproposta come quadro essenziale della coesistenza umana e l'ordine istituzionale dello stato, con le sue leggi e con le sue misure di "giustizia armonica", deve esercitare una sua egemonia su ogni altra forma sociale e religiosa e suoi loro corrispondenti ordini normativi. Ricompare quindi in Bodin un'esigenza analoga a quella di Machiavelli, cioè che il potere politico affermi il suo primato ed assuma la massima responsabilità nell'organizzazione della vita sociale. La ragione e il lume naturale, sostiene Bodin, ci portano a credere che per reggere lo stato (le cui origini prossime o remote sono la forza e la violenza) non bastino e si rivelino anzi talvolta nocive le misure dell'ordinaria moralità e razionalità. Non si può valutare l'azione politica del principe (questa è proprio un'idea di Machiavelli) in base agli scrupoli morali che gli individui possono seguire nei loro affari personali. Il partito dei "politici" vuole dunque riabilitare la forza dello stato, riproponendo il rapporto politico come rapporto sociale fondamentale, svincolato dagli impacci e dai condizionamenti di ogni coalizione di interessi settoriali. La sovranità è la facoltà di dare ed annullare, di interpretare e di modificare la legge e la legge è essenzialmente "il comando di colui o coloro che hanno pieno potere sugli altri".

La legge e la sovranità

Il pensiero di Bodin non è tuttavia privo di contraddizioni: il suo concetto di legge e di sovranità mette in crisi il corporativismo e l'organicismo sociale tradizionale ma altri aspetti della sua dottrina risentono di reminiscenze feudali. Un suo libro sulla caccia alle streghe rivela quanto di retrivo sussistesse ancora nella sua mente su certi argomenti. Arcaico e repressivo è anche il suo intendimento della famiglia: egli vuole il ripristino di antiche leggi che, sanzionando l'autorità illimitata del pater familias, gli riconoscevano, come precetto divino, il diritto di vita e di morte sui suoi membri. Più aperto e lungimirante Bodin sembra essere sul problema della schiavitù: egli condanna questa istituzione e denuncia le conseguenze negative che il suo perpetuarsi avrebbe sulla vita sociale; se in una nazione gli oppressi non hanno alcuna speranza, la loro costante minaccia di reazione è causa di destabilizzazione politica e sociale. Pagati questi tributi ai retaggi medievali e feudali, Bodin riscopre una vocazione più moderna della politica. Quando i capi famiglia escono dal chiuso della loro corporazione e diventano cittadini, subentra tra di loro un rapporto di parità e di reciprocità: non sono più padroni e signori ma membri di uno stato politico al cui potere superiore essi devono subordinarsi. Nella sua opera fondamentale, Les six livres de la République, Bodin insiste sul principio che una comunità sociale è politicamente organizzata quando "tutti i cittadini si governano con le stesse leggi" e quando "le leggi sono cosa pubblica e comune e dipendono dal sovrano". L'ordine politico si costituisce dunque sul principio di sovranità. Nel mondo medievale e feudale l'idea di sovranità rifletteva il carattere corporativo della società; essa era intesa come forza coesiva della comunità sociale, coesione garantita dall'autorità della Chiesa e dell'impero e dall'ascendente simbolico del diritto naturale e dei suoi principi oggettivi di legalità, radicati nelle cose per volere di Dio. Bodin non si ispira più a questo riferimento giusnaturalistico e non crede che l'oggettività presunta di queste leggi possa di per sé sostenere l'organizzazione politica e giuridica della comunità, se non c'è un'autorità accentrata che faccia valere i principi normativi con unità di orientamento e con metodica e coerente applicazione. Certo, Bodin non smentisce esplicitamente il valore della legge di natura; non vi sono d'altronde, nel suo tempo, teorie politiche disposte ad ammettere che il diritto naturale non esiste e che Dio non ha posto come base di uno stato bene ordinato regole di comportamento morale e sociale sancite dal suo volere. La tradizione giusnaturalistica aristotelico-tomistica, pur criticata sul piano teologico da Lutero e da Calvino, continua ad essere presente nel pensiero politico, almeno come limite alla tirannia del monarca. Egli non ritiene però che la governabilità dei fenomeni sociali sia garantita semplicemente dall'evocazione di un ordine nazionale in grado, per virtù propria, di definire i giusti rapporti fra le cose e non subordina così il suo concetto di diritto all'idea di un diritto originario, ideale e assoluto. Il re è tenuto ad obbedire alle leggi della natura ma "i sudditi obbediscono alle leggi del re"; solo così "la legge sarà padrona". La conflittualità del suo tempo è così aspra, le dilacerazioni politiche e religiose sono così profonde che sembra illusorio a Bodin fare affidamento sul diritto naturale per ripristinare un ordine tanto gravemente violato e disgregato. Ciò che si può fare in questi casi è solo pratica una disubbidienza passiva. Il diritto e l'azione politica devono ispirarsi al realismo e il rafforzamento del potere è la condizione necessaria per intraprendere un'opera efficace di ricostruzione sociale. Si assiste così, nel pensiero di Bodin, ad una crescita dell'importanza simbolica e funzionale del potere politico. La sovranità per lui è "indivisibile", incondizionata e rappresenta quindi il fondamento dello stato e la garanzia dell'ordine sociale ed il suo carattere di perpetuità la pone al di là dei singoli reggitori. Vi è quasi la prefigurazione di una personalità giuridica dello stato che non muta al mutare dei titolari momentanei della sovranità. Bodin teorizza dunque l'accentramento politico contro la tradizione feudale dell'autonomia dei corpi sociali differenziati e muniti di loro originari poteri. Ciò che la sovranità deve fare per garantire il buon funzionamento del governo e dello stato è di proporsi come fondamentale criterio politico e normativo e di creare un ambiente di legalità generale che valga per tutti e a cui tutti gli altri sistemi normativi siano subordinati. Il cittadino è appunto colui che gode di un diritto comune, di una libertà comune e di una comune protezione dell'autorità; il rapporto politico di sovranità diventa perciò anche un rapporto giuridico universalmente valido per tutta la nazione e la fonte del potere tende progressivamente ad identificarsi con la fonte del diritto. Il potere fa il diritto che è quindi ciò che il principe istituisce e dichiara; contrariamente alla teoria giusnaturalistica il diritto diventa un manufatto del potere ed assume un carattere volontaristico. Ciò comporta una drastica riduzione delle funzioni del diritto consuetudinario. L'intento di Bodin è di rendere progressivamente uniformi le consuetudini e di farle sempre più dipendere da un diritto intenzionalmente stabilito dal sovrano. La preponderanza del volere dell'autorità nella formazione della legge implica che quest'ultima, pur cercando per la sua stabilità ed efficacia il consenso popolare, non abbia una sua origine contrattualistica; essa è un atto di volontà del sovrano, non un patto o una transazione fra il sovrano e i cittadini. Bodin non è contrario ad una certa estensione di regolamentazioni giuridiche (civili e sociali) contrattualisticamente stabilite, in cui il principe non abbia una predeterminata superiorità sui sudditi ma con la fondamentale riserva che il re non più vincolato alla promessa se cessa il giusto motivo che l'ha determinata. La preoccupazione di Bodin è dunque che in Francia non si interrompa quel processo di accentramento, iniziato fin da Luigi XI, che doveva portare alla costituzione di un forte stato nazionale tenuto sotto l'egida di una monarchia dominante su tutto il territorio e su tutti i sudditi e non più costretta a patteggiamenti con i poteri tradizionali feudali. Questa concentrazione di autorità non deve tuttavia favorire la tirannia e l'impegno a non far degenerare l'assolutezza nell'arbitrio rimane un carattere costante della teoria di Bodin. Egli riconosce che la parola tirannia non aveva in passato un significato spregiativo (a Roma e in Grecia) ma il rischio di un'involuzione dispotica dell'autorità esiste e una politica avveduta deve tenere distinte le positive funzioni del potere accentrato dall'uso tirannico dell'autorità, che è nocivo, anche se non sempre è agevole discernere ciò che in un principe è proprio del buon re e ciò che è proprio del tiranno. Bodin non predispone tuttavia strumenti istituzionali di critica e di controllo contro gli abusi del potere: il suo sistema costituzionale è rivolto soprattutto a favorire la formazione del potere assoluto e non a cercare garanzie e limiti nei suoi confronti. In questo modo Bodin non ricorre neppure a quella figura dei magistrati intermedi fra il sovrano ed il popolo, gli Efori, che era prevista nel programma degli Ugonotti e che sarà riproposta da Altusio.
Ciò non toglie che anche per Bodin la sovranità sia obbligata al rispetto di certi principi e di certi fondamenti della società: la famiglia rappresenta un baluardo invalicabile anche per l'autorità politica e, d'altra parte, il sovrano è vincolato a quelle che Bodin chiama leges imperii, cioè le leggi fondamentali che garantiscono alla monarchia francese la sua legittimità contro le usurpazioni. Rimane inoltre una qualche remora derivante dalle norme del diritto naturale, ancora evocato per trattenere il sovrano da comportamenti contrari alla morale e alla religione. Si affida piuttosto al convincimento che quando lo stato riesce a dare un assetto stabile alla società e ad impedire scissioni e ribellioni, la sua azione tenderà spontaneamente a volgersi verso la moderazione. Il potere politico, come lui lo configura, non deve servire per il fanatismo bensì deve impegnarsi a dare regole più coerenti e più vantaggiose all'insieme dei rapporti sociali, ponendosi come un arbitro superiore alle parti e non facendosi condizionare o espropriare dalle pretese e dagli interessi delle diverse fazioni contrapposte. Per garantire l'unità politica Bodin non esita a considerare perfino il ricorso alla guerra come strumento adatto a riconventire le contese interne in lotta contro le nazioni rivali.

Lo stato bene ordinato
Non è così necessario, per Bodin, vincolare la politica alle categorie tradizionali della potenza e del dominio e si rivela invece più vantaggioso impegnarsi in regolamentazioni che rendano utili e produttive le imprese sociali, civili ed economiche. La sovranità non conta come valore politico in sé ma per quello che riesce a fare a favore della comunità; la società civile, non solo il mondo del potere, dev'essere quindi l'ambito di esplicazione della politica. In materia di organizzazione sociale ed economica Bodin sembra ugualmente lontano dal comunismo integrale così come da un liberalismo estremo. Il principio della comunanza dei beni è da escludere perché provoca inerzia e parassitismo. L'uguale ripartizione delle ricchezza gli sembra operazione assurda e ancora più illusorio gli pare il tentativo di una uguale ripartizione dei poteri; meglio è per lui convincersi che l'uguaglianza dei cittadini su certi punti non significa uguaglianza di essi su ogni cosa, così come la superiorità di alcuni di loro in qualche parte non legittima un dominio integrale di costoro su tutto. Per il buon andamento della vita economica è conveniente che lo stato lasci a ciascuno la proprietà personale; è perciò necessario che il governo si impegni in una dettagliata conoscenza delle situazioni patrimoniali dei cittadini per mettere ordine nelle finanze e per utilizzare le entrate fiscali nel modo complessivamente più vantaggioso.

Politica e conoscenza storica

L'esigenza di dare forma unitaria al diritto ed alla sovranità non soppianta tuttavia l'interesse di Bodin ad applicare alla conoscenza politica il metodo storico, comparativo e sperimentale. Nella sua opera Il metodo della conoscenza storica egli cerca di spiegare i fenomeni politici attraverso una combinazione di intellettualismo e di esperienza, cioè attraverso strumenti cognitivi adeguati alla comprensione della storia umana. La conoscenza storica riguarda tutto ciò che è significativo nella vita coesistenziale e quindi non solo il mondo delle istituzioni politiche, ma anche quello della fenomenicità civile, sociale ed economica da cogliere nelle sue articolazioni complesse e differenziate; perché questa conoscenza sia efficace non si deve ricondurre tutto il reale entro gli schemi di una "storia universale" ma si deve piuttosto comprendere la "storia particolare" di ogni comunità. Studiare la storia vuol dire conoscere fenomeni e situazioni dall'interno, nelle loro specificità e determinatezze, senza aprioristica sovrapposizione di personali valutazioni. Conoscere quindi innanzitutto la realtà e solo quando essa è conosciuta nella sua effettività, ci si può porre il problema di sapere come è possibile modificare le cose. La visione della storia di Bodin non corrisponde ad un modello ottimistico: non c'è per lui alcuna certezza che il sapere storico possa accumularsi ed è un grave errore presumere che l'umanità non sia sempre esposta ad un rischio di degenerazione. Nello sviluppo progressivo della società si scopre una infinità di fasi e di mutamenti che seguono però più un andamento ciclico che non una direzione longitudinale. E' assurdo pretendere di eliminare dalla storia il male e la corruzione, è anche vano "includere la parola felicità nella definizione dello Stato" ma è possibile con la conoscenza e con l'azione politica predisporre garanzie e difese contro i flussi e i riflussi degenerativi della realtà. La conoscenza politica progredisce per Bodin se il "naturale" degli uomini è considerato in relazione alle loro diverse situazioni storiche, dislocazioni geografiche, strutture sociali ed economiche, abitudini morali e pratiche culturali. C'è in lui l'esaltazione della monarchia " regia e legittima", non "dispotica e tirannica", come lo strumento istituzionale più adatto, soprattutto nella drammatica situazione della Francia del suo tempo, a compiti di unificazione politica e pacificazione sociale. Bodin compara il reggimento monarchico all'ordinamento aristocratico e democratico e perviene alla conclusione che la monarchia presenta una superiorità teorica e comunque minori inconvenienti pratici rispetto alle altre forme di governo. Se la degenerazione tirannica della monarchia è perniciosa, lo è ancora di più la tirannia delle oligarchie e quella del popolo; egli riconosce che le idee democratiche esprimono la migliore nozione di comunità ma l'uguaglianza che gli stati popolari perseguono gli sembra fittizia e matrice di tensioni e discordie. Bodin affida quindi alla monarchia il compito di imporre quella che lui chiama la "giustizia armonica" distinta sia dalla "giustizia aritmetica" della democrazia e dei governi popolari, in cui ogni cittadino è considerato dotato di pari titoli, sia da quella "giustizia geometrica" propria dei regimi aristocratici e oligarchici, in cui, a seconda di meriti prestabiliti, si attribuiscono posizioni, funzioni e privilegi diversi. La giustizia armonica cerca di valorizzare e di utilizzare in modo equilibrato le varie parti sociali, compensando le loro disuguaglianze con una certa omogeneità del diritto e con l'autorità generale dello stato.

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