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Gaetano Filangieri

Diritto e ragione
L'opera di Filangieri, Scienza della legislazione, ha esercitato una sensibile influenza sul pensiero illuministico italiano con vasta risonanza anche nella cultura politica europea, specie in Francia. Conformemente all'ottimismo giuridico dell'Illuminismo, Filangieri vede il diritto al servizio di una ragionevolezza pubblica rivolta a dare maggiore equità e prosperità alla vita sociale. Spetta perciò alla legislazione il compito di sgombrare il terreno dai detriti di tradizioni e consuetudini improduttive e di definire un sistema normativo adatto a commisurare le esigenze di una società evoluta. Le leggi non devono consolidare e tutelare pregiudizi ed ingiustizie del passato ma devono aprire nuovi itinerari di esperienza sociale con una intenzionalità speculativa che guardi a prospettive non solo nazionali, bensì cosmopolitiche, di incivilimento. Una legislazione illuminata è tenuta perciò a rafforzare nella comunità delle nazioni rapporti di coesistenza pacifica e di cooperazione, essendo la prosperità di una nazione dipendente dalla prosperità delle altre. Rimane tuttavia il problema di chi debba essere titolare e produttore di questa normatività; Filangieri non opta, come Rousseau, per una scelta democratica che coinvolga direttamente nel processo legislativo la sovranità del popolo: il suo riformismo indulge piuttosto all'idea che debbano essere i principi ed i governi, orientati da una rinnovata filosofia, a trasformare le basi della politica tradizionale ed a promuovere una "pacifica rivoluzione" in grado di riconoscere e soddisfare i bisogni reali dei cittadini. Sia per motivi di prudenza e di opportunismo, sia per la consapevolezza dei limiti storici dell'azione riformatrice egli ritiene, tuttavia, che sia meglio educare ad una certa razionalità politica i governi esistenti piuttosto che sostituirli con un potere popolare ancora difficile da definire e da articolare istituzionalmente. Filangieri predilige così una politica illuminata, impegnata a convincere i sovrani dell'utilità e necessità di dare alla loro azione governativa un'ispirazione più conforme agli interessi generali del popolo. Anche se la "forza pubblica", risultante dall'aggregazione di tutte le forze private, può far capo ad una persona morale tradizionale come la regalità, bisogna tuttavia che tale forza sia costantemente penetrata da una "ragione pubblica" in grado di tutelare la conservazione e la tranquillità, di fissare i diritti e i doveri di ciascun individuo nei confronti della società e di stabilire un equilibrio fra i bisogni dei cittadini, dando loro i mezzi per soddisfarli. La posizione di Filangieri oscilla fra la tendenza a concedere allo stato un'estensione della propria ingerenza nella società attraverso una legislazione sistematica e l'esigenza di impedire che l'autorità governativa restringa abusivamente gli spazi di non impedimento di quelle forze spontanee della vita civile produttiva i cui diritti, usurpati dai privilegi feudali che profittano della debolezza dell'autorità centrale, potrebbero esserlo anche dalle ambizioni incontrollate dell'assolutismo statale. Da un lato egli presume che se il potere accentrato vince l'anarchia feudale e i costumi indeboliscono il dispotismo, sussistano le condizioni per dirigere le leggi verso il progresso generale della società; dall'altro lato però rimane il dubbio sull'opportunità di concentrare tanta autorità e tanti mezzi in sovrani che potrebbero non essere così illuminati. Alla legge Filangieri affida non solo il compito di attuare iniziative potestative per la realizzazione di sistematici programmi di riforma ma anche il compito di garantire i cittadini nei confronti dell'autorità e di estendere gli ambiti di vita sociale legittimamente occupabili dalle libere attività individuali. Per un verso quindi il progresso dei Lumi e delle cognizioni sembra consentire alla legislazione di impegnarsi metodicamente in riforme di vasta portata ma per un altro verso rientra fra i compiti legislativi anche quello di ridurre la penetrazione dello stato nella vita sociale, produttiva e culturale della nazione. Filangieri affida alla legislazione il compito di dare nuove basi all'ordine sociale e all'insieme dei valori politici, anche se lascia aperto il problema di quali sono i limiti della legislazione e quali sono le spettanze che, nel rinnovamento della società, competono ai sovrani tradizionali o alla volontà popolare e alla libertà dei singoli. Il suo principio ispiratore sembra comunque essere questo: che le riforme non mettano in crisi la legittimità dei poteri costituiti ma che tali poteri trovino nella certezza di un diritto equo una garanzia essenziale contro l'arbitrio. La direzione finalistica è inerente alla natura stessa delle leggi che non devono essere solo il compendio e la ratifica delle cose del passato . Egli crede che la ragione possa progressivamente eliminare gli artifici, le oscurità e le deformazioni delle vecchie leggi ma riconosce anche che la ragione non è tutta data, che non è superiore ed anteriore alla vita e che perciò esige essa stessa delle garanzie istituzionali a favore di quel diritto alla libertà del pensiero. Il pensiero di Filangieri esalta ogni possibile convergenza fra ragione e politica, fra cultura e diritto, fra "spirito di lettura" e "spirito di sovranità" ma ribadisce anche che solo la libertà dei cittadini rivela le verità utili e costringe i sovrani a provvedere ai bisogni delle nazioni.

I fini della politica moderna

Il primo significativo spostamento di simboli, valori e scopi di una politica ragionevole consiste per Filangieri nell'abbandono dello spirito della guerra, della conquista e dell'imperialismo a vantaggio di attività più utili, connesse alla prosperità sociale ed economica. I governi sono tenuti a recepire, attraverso la mediazione di una filosofia illuminata, queste profonde esigenze della società moderna ed a cercare di realizzarle correggendo certe tradizionali categorie costitutive della sovranità, incompatibili con la logica del progresso. La perfezione dell'arte più funesta dell'umanità, come appunto la guerra, ci fa comprendere che esiste un vizio che va sanato attraverso l'educazione e la legislazione: il potere deve comprendere che la vita e la tranquillità degli uomini meritano maggiore rispetto e che la protezione della loro libertà e della loro laboriosità dev'essere il punto di riferimento essenziale di una legislazione all'altezza dei problemi del mondo moderno. C'è un altro sistema politico, diverso di quello accentrato nella forza e nelle armi, che può far giungere i popoli alla grandezza, allo sviluppo, alla ricchezza; le buone leggi sono l'unico sostegno della felicità nazionale e tale loro bontà si misura nella loro attitudine a favorire la produttività civile e a contrastare invece le discriminazioni e le prevaricazioni. La legislazione si rende qualitativa e si modernizza se si applica con la dovuta coerenza e uniformità, se assume un carattere universale, se si munisce dell'indispensabile requisito della certezza contro gli abusi delle interpretazioni discrezionali dei magistrati. Malgrado le loro ambizioni assolutistiche i governi tradizionali rivelano una loro sostanziale debolezza perché non hanno capacità sufficienti per promuovere un'attività normativa organica né lumi bastevoli per darle una direzione produttiva. Quella dell'assolutismo è una forza militare, non una forza giuridica; il potere moderno deve quindi fare della legislazione lo strumento per lottare contro le forze recalcitranti della conservazione e per combinare i rapporti sociali al meglio delle loro possibilità storiche. Per questa riconversione politica è necessario che gli uomini di cultura e i filosofi siano ammessi a discutere i grandi interessi dello stato. Compete all'intelligenza e alla educazione impegnarsi per distogliere i comportamenti degli individui dalle false virtù, dai falsi onori, dalle false glorie e volgerli verso le utili intraprese che procurano la prosperità dei popoli. Ad una cultura politica rivolta ad estirpare le radici del sistema feudale spetta di incitare i governi ad abolire i privilegi della aristocrazia parassitaria ed a impedire che le ricchezze esorbitanti di alcuni cittadini provochino l'infelicità e la miseria della maggior parte. L'industria, il commercio, il lusso,le arti, tutti questi mezzi che altre volte indebolivano lo stato sono diventati, nelle mutate dimensioni della società moderna, i più sicuri sostegni della potenza delle nazioni, perciò se una certa classe dello stato deve essere favorita, dovrebbe essere la classe produttrice. Questa classe produttrice può modificare i fini della politica tradizionalmente calcolati sulla contrapposizione di comunità chiuse e di rendere tutte le nazioni componenti di una società unica; è falso presumere che la grandezza di una nazione si fondi sulle rovine altrui. Filangieri chiede l'abolizione del sistema delle dogane che è un affronto e una rapina nei confronti dei cittadini industriosi, una riforma radicale dei tributi e delle maniere di esigerli, una drastica riduzione delle spese militari ed un più equo equilibrio fra lo stato delle province e quello della capitale. Per assolvere a questi compiti,la politica deve darsi una sua autonomia funzionale rispetto alla religione: sempre da accogliere come vincolo di pace e fondamento di virtù sociali, la fede non deve però fomentare parassitismi e ratificare la miseria dei popoli.

I limiti della legge
Questa politica impegnata a valorizzare le potenzialità della società civile vorrebbe essere il contrario del sistema di Machiavelli, nei cui confronti il giudizio di Filangieri è particolarmente severo: fare del potere l'arte della mistificazione, della simulazione, della manipolazione, mettere il vizio accanto alla sovranità significa trasgredire valori essenziali della coscienza politica moderna. I principi devono sapere che se hanno troppa dimestichezza con le pratiche tortuose dell'opportunismo, della menzogna e della frode, essi sono dei falliti come uomini di stato e saranno dei rei di fronte alla giustizia del mondo civile. La legge non può più essere l'involucro del privilegio né lo strumento attraverso cui il sovrano vincola il popolo al suo volere arbitrario ma deve proporsi come un universale criterio di commisurazione della vita civile che si impone anche nei confronti dei potenti e dei ricchi. D'altra parte le leggi non devono solo incutere paura né suscitare solo una specie di onestà negativa derivante dalla minaccia della sanzione ma devono procurare piuttosto un'onestà positiva fondata sull'educazione civile e sul convincimento etico e razionale. Filangieri sostiene che in questa loro funzione pedagogica le leggi possono mutare la direzione delle passioni umane, sostituendo a quelle più feroci e meno sociali altre più aperte alla benevolenza e all'equità. Compete alla legge la predisposizione delle condizioni essenziali che consentano agli individui di svolgere liberamente le loro attività; è giusto garantire un certo grado di spontaneità alle propensioni umane perché il benessere collettivo non è una formula segreta conosciuta solo da alcuni che ne sono gli interpreti ufficiali ma risulta dai concreti vantaggi che i cittadini ritraggono dal loro agire libero. D'altra parte il suo senso storico induce Filangieri a non subordinare ad una illusoria teoria della bontà assoluta delle leggi la " teoria molto più complicata della loro bontà relativa", la quale richiede un'analisi realistica dei rapporti fra ordine normativo e condizioni e possibilità pratiche delle comunità sociali che lo devono recepire. Anche le leggi meglio congeniate hanno i loro vizi e difetti che solo il tempo rivela.

Riforme e libertà politica
Rimane in Filangieri il problema se la positività della funzione legislativa debba emanare da un rafforzamento dell'autorità costituita o da un sistema di limitazioni politiche e istituzionali da opporre all'autorità. La sua posizione non è esente da ambiguità: egli certo rifugge dall'idea che certi rapporti politici debbano essere rispettati perché esistenti ma egli sembra affidare all'autorità sovrana il compito di imporre a se stessa dei limiti e di concedere al popolo ciò che esso potrebbe richiedere in base al suo diritto ed ottenere dai suoi rappresentanti. Filangieri sollecita animosamente l'attuazione di ciò che è utile al rinnovamento della società ma si preoccupa insieme di non ledere oltre misura le prerogative dell'autorità. La riforma giuridica è per lui relativamente disgiunta dalla preliminare conquista della libertà politica; è vero però che egli sa anche diffidare del dispotismo illuminato perché è consapevole che "i veri cittadini rare volte circondano il trono" e che la redenzione dei mali sociali dipende soprattutto dai progressi della pubblica istruzione e dalla conoscenza diretta che il popolo ha dei mali che lo opprimono. La costituzione effettiva di uno stato non si esprime per lui soltanto nella centralità del potere statale. Questo amore del potere, che nei governi tirannici è monopolio del sovrano, diventa in un governo libero un mezzo legittimo di realizzazione personale e collettiva. Il problema della politica è di combinare le tendenze naturali degli uomini al potere in modo da favorire una maggiore estensione del governo popolare, garantendo condizioni di tolleranza e di reciproco rispetto fra i cittadini e conservando la nazione nei suoi diritti.

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