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L’imputazione dell’attività di impresa



Centro di imputazione degli effetti dei singoli atti giuridici posti in essere è il soggetto e solo il soggetto il cui nome è stato validamente speso nel traffico giuridico. Solo questi, in particolare, è obbligato nei confronti del terzo contraente.
Questo criterio di imputazione degli effetti attivi e passivi degli atti negoziali (spendita del nome) risponde ad esigenze di certezza giuridica.
È quindi il principio formale della spendita del nome, e non il criterio sostanziale della titolarità dell’interesse economico, che domina nel nostro ordinamento l’imputazione dei singoli atti giuridici e dei loro effetti.
La qualità di imprenditore è acquistata, con pienezza di effetti, dal soggetto e solo dal soggetto il cui nome è stato speso nel compimento dei singoli atti di impresa. Non diventa invece imprenditore il soggetto che gestisce l’altrui impresa quando operi spendendo il nome dell’imprenditore, per effetto del potere di rappresentanza conferitogli dall’interessato o riconosciutogli dalla legge.
Quando gli atti di impresa sono compiuti tramite rappresentante (volontario o legale), imprenditore diventa il rappresentato e non il rappresentante. E ciò quand’anche il rappresentante abbia ampi poteri di decisione in merito agli atti di impresa e di tali poteri sia invece privo il rappresentato, sicchè è possibile affermare che l’attività di impresa è sostanzialmente esercitata dal rappresentante.

C’è dissociazione fra il soggetto cui è formalmente imputabile la qualità di imprenditore ed il reale interessato.
È questo il fenomeno dell’esercizio dell’impresa tramite interposta persona. Il soggetto (persona fisica o giuridica) che compie in proprio nome i singoli atti di impresa è l’imprenditore palese o prestanome. Il soggetto (persona fisica o giuridica) che somministra al primo i necessari mezzi finanziari, dirige in fatto l’impresa e fa propri tutti i guadagni, è l’imprenditore indiretto o occulto.
Parte della dottrina ha ritenuto di poter neutralizzare i pericoli per i creditori, insiti nella rigorosa applicazione del principio della spendita del nome, escludendo che la stessa sia requisito necessario ai fini dell’imputazione della responsabilità per debiti di impresa.
È stata affermata la responsabilità cumulativa dell’imprenditore palese e del dominus, con esclusione però del fallimento per quest’ultimo. Chi esercita il potere di direzione di un’impresa se ne assume necessariamente anche il rischio e risponde delle relative obbligazioni.
Quando l’attività di impresa è esercitata tramite prestanome, responsabili verso i creditori sono sia il prestanome sia il dominus, per quanto solo il primo acquisti la qualità di imprenditore e, quindi, sia senz’altro esposto al fallimento, dato che solo il suo nome è stato speso nel traffico giuridico.
Secondo la teoria dell’imprenditore occulto, il dominus di un’impresa formalmente altrui non solo risponderà insieme a questi, ma fallirà sempre e cmq qualora fallisca il prestanome.
L’art. 147, 2° comma, dispone che il fallimento della società si estende anche ai soci la cui esistenza sia scoperta dopo la dichiarazione di fallimento della società e dei soci palesi. È questo il cosiddetto fallimento del socio occulto di società palese.
Se fallisce la società occulta è inevitabile che fallisca anche l’imprenditore occulto.
È affermata la responsabilità del socio tiranno di una società per azioni. Dell’azionista cioè che non è titolare dell’intero pacchetto azionario e che perciò non può essere chiamato a rispondere illimitatamente in base all’art. 2362, ma che in fatto usa della società come cosa propria e ne dispone a suo piacimento col l’assoluto disprezzo delle regole fondamentali del diritto societario.
È anche affermata la responsabilità dell’azionista o degli azionisti sovrani. Dell’azionista cioè che, pur rispettando le regole di funzionamento della società, in fatto domini l’impresa societaria in forza del possesso di un pacchetto azionario di controllo.

Né le norme societarie né la legge fallimentare consentono di dimostrare che un soggetto può essere chiamato a rispondere (e tanto meno acquistare la qualità di imprenditore), per ciò solo che egli è il dominus di un’impresa individuale formalmente imputabile ad altro soggetto o di una società di capitali.
Nel fallimento del socio occulto di società palese (ipotesi regolata) è fuori contestazione che esiste una società con soci a responsabilità illimitata. Ciò che è stato occultato è solo il reale numero dei soci ed il socio occulto risponde e fallisce esattamente per lo stesso motivo per cui rispondono e falliscono i soci palesi.
Chi è socio di una società a responsabilità illimitata risponde verso i terzi anche se la sua partecipazione alla società non è stata esteriorizzata.
Il prestanome è mandatario (senza rappresentanza) del dominus e non socio dello stesso.
La situazione giuridica è quindi qualitativamente diversa da quella prevista dal secondo comma dell’art. 147 e non può essere trattata allo stesso modo. Quand’anche si accetti il primo passaggio della teoria dell’imprenditore occulto (dal fallimento del socio occulto al fallimento della società occulta) e si ammetta quindi l’esposizione a fallimento delle società occulta, non è consentito affermare, per ulteriore analogia, la responsabilità illimitata del dominus di un’altrui impresa individuale o di una società di capitali.
È vero che la spendita del nome non è il solo criterio di imputazione dei debiti di impresa, ma non è meno vero che tale imputazione è pur sempre retta da indici esclusivamente formali ed oggettivi. Il dominio di fatto non è condizione sufficiente per esporre a responsabilità e fallimento; né, tanto meno, determina di per sé l’acquisto della qualità di imprenditore.

Il dominio di fatto su un’impresa individuale o societaria, formalmente imputabile ad altro soggetto, non implica di per sé responsabilità illimitata per i debiti di impresa.
I comportamenti tipici del socio tiranno possono integrare gli estremi di una autonoma attività di impresa; di un’impresa di finanziamento e/o gestione a latere della o delle società di capitali dominate. Sempre che ricorrano i requisiti fissati dall’art. 2082 (organizzazione, sistematicità e metodo economico), il socio o i soci che hanno abusato dello scherno societario risponderanno come  titolari di un’autonoma impresa commerciale individuale o societaria (società di fatto), per le obbligazioni da loro contratte nello svolgimento dell’attività fiancheggiatrice della società di capitali ed in quanto tali potranno fallire semprechè si accerti l’insolvenza della loro impresa.

Tratto da DIRITTO DELL'IMPRESA di Enrica Bianchi
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