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Diritto a morire


Le nuove situazioni in cui le persone negli ultimi decenni vedono verificarsi il decorso (non più completamente naturale) della morte hanno fatto sorgere una serie di problemi etici che tra le altre cose spingono ad un riesame dei nostri diritti e doveri di fronte alla morte. Si tratta di situazioni che portano inevitabilmente ad un’indagine circa l’accettabilità o meno dei tradizionali principi morali. Si tratta di mutamenti nelle condizioni psicologiche o sociologiche del morire prodotti con progressivo miglioramento della qualità della vita nelle società industrializzate avanzate, che hanno allungato notevolmente la vita media.
Nel 1968 la commissione di Harbard fissava i criteri della morte cerebrale: il dibattito è ad oggi tutt’altro che concluso, continuano a confrontarsi cioè differenti concezioni sulla natura della morte: che sia un processo, un evento, collegata all’arresto cardiaco o alla fine dell’attività cerebrale; c’è anche chi sostiene che la definizione di morte non sia derivabile da ragioni mediche o biologiche bensì sia da considerare, come sosteneva Singer, essa stessa (la morte) una decisione etica.
Per quanto importante, la questione del criterio di accertamento empirico della morte è solo indirettamente rilevante per risolvere la questione se vi siano differenze eticamente significative fra diversi modi di morire. Il problema etico centrale relativo alla morte degli esseri umani non è quello del decidere  se essi siano o meno morti ma quello di chiederci se siamo legittimati a compiere azioni che comportino o agevolino la morte di qualcuno e conseguentemente quali siano i casi di morte che chiamano in causa giudizi di illiceità.
Le nuove condizioni del morire a cui ci riferiamo sono quelle legate ad un ampio ricorso di strumenti e macchine usate per  ritardare la morte, la novità significativa si incontra in quelle situazioni da “stadio terminale”, situazioni in cui molte delle funzioni del morente vengono artificialmente surrogate da macchine. Ciò comporta periodi che possono essere lunghi di irreversibili stati vegetativi, in condizioni in cui sembra assente qualsiasi forma di coscienza.
La riflessione bioetica ha largamente discusso i casi emblematici*
È atteggiamento comune (soprattutto in Italia)  risolvere i casi di questo tipo ricorrendo al principio della sacralità della vita, da parte di coloro i quali si definiscono contrari all’uso della tecnica e della scienza medica come forma di assistenza (etica della non disponibilità).
Fattostà che queste nuove situazioni di morte portano inevitabilmente ad un riesame critico dei principi morali tradizionali, da cui gli esseri umani si sono fatti guidare quando hanno dovuto affrontare la loro morte o quella dei loro simili o vicini. Questi casi limite rappresentano il nucleo della bioetica, a tale nucleo possiamo collegare la riflessione critica circa la possibilità o meno di riconoscere un diritto morale a morire, un diritto che la morale tradizionale non ha mai ammesso e che una volta riconosciuto dovrebbe portare ad una revisione radicale delle nostre leggi. Alcuni degli interrogativi proposti dalla riflessione bioetica possono essere:
Fino a che punto accettare un prolungamento artificiale della vita?
Come e quando eventualmente interrompere questo prolungamento artificale?
È giusto attivare un apparecchio sussidiario per  le funzioni vitali ad un uomo che si trova in una situazione allo stadio terminale?
Ci sono dei diritti che le persone coinvolte in una morte del genere possono far valere?
Quale è la natura di tali diritti (morale o giuridica)?
Quali limiti o criteri porre o seguire? Chi li fissa?

Tratto da BIOETICA. LE SCELTE MORALI di Marianna Tesoriero
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