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A quando il processo ai khmer rossi?


Nella risoluzione del 12 settembre 97 sulla situazione cambogiana, l’assemblea generale delle Nazioni Unite, riferendosi agli anni 75-79 parlò esplicitamente e per la prima volta di atti di genocidio. Bisognava da una parte rispondere alla richiesta di aiuto del governo cambogiano per far processare i dirigenti khmer rossi ancora vivi e dall’altra approfittare del clima diplomatico favorevole all’istituzionalizzazione della giustizia internazionale dopo che erano stati creati tribunali penali per l’ex Jugoslavia e il Ruanda.
Uno dei risultati dell’occupazione della Cambogia da parte dell’esercito Vietnamita che in meno di 2 settimane aveva sconfitto le forze khmer rosse fu di trasformare quell’antico regno nel terreno di scontro della guerra fredda. All’Assemblea Generale dell’ONU, il timore di un nuovo espansionismo sovietico attraverso il suo alleato vietnamita portò a costituire una strana coalizione di cui facevano parte la Cina, i paesi dell’ASEAN (sud est asiatico) e gli USA per costringere il Vietnam a ritirare il proprio esercito. Ciò implicava sostenere da un punto di vista materiale le forze che resistevano sul campo cioè i khmer rossi. E ciò implicava anche che quegli stessi khmer rossi legati al governo cambogiano in esilio, fossero accettati come legittimi rappresentanti della Cambogia in seno all’ONU. Infine ciò comportava il fatto di dover tener nascosto il rapporo della Sottocommissione per i diritti umani così come tutti gli ulteriori tentativi dei paesi occidentali di presentare una risoluzione su questo tema. Con la ripresa della guerra fredda, l’ONU diventò lo strumento che garantiva la sopravvivenza politica, diplomatica e militare di un movimento che aveva distrutto la società del proprio paese. Quando, in seguito al ritiro unilaterale delle forze vietnamite nell’89 si prospettò il possibile negoziato per riportare la pace in Cambogia, i dirigenti khmer rossi sempre presenti nella sede dell’ONU non poterono rimanerne esclusi. La loro presenza ai lavori della conferenza di pace impedì che la parola genocidio comparisse nell’atto finale degli accordi di Parigi del 91.
La progressiva riconversione dei khmer rossi negli anni 90 oltre a garantire l’impunità rinviò la possibilità di poter emettere un giudizio globale sulla politica condotta all’epoca della kampuchea democratica e impedì qualsiasi lavoro di memoria da parte dell’intera società. Il movimento di Pol Pot scegliendo di ritirarsi dalle elezioni nel 93 per ritornare alla guerriglia delle proprie origini si isolò nelle regioni occidentali e settentrionali di confine e questo lo condannò in breve tempo a una marginalizzazione politica ulteriormente accentuata da ondate di diserzioni di massa. La legge del 7 luglio 94 destinata a istituzionalizzare questa marginalizzazione vietando il movimento e amnistiando tutti i khmer rossi che avessero aderito al governo ebbe effetti disastrosi. Uno dei risultati di questa legge è stata la creazione a Pailin, alla frontiera con la Thailandia di un distretto semiautonomo dominato e gestito dagli ex khmer rossi la cui principale attività consiste nel saccheggiare le risorse naturali grazie ai contratti firmati con il governo e con le società straniere. Una conseguenza della politica di amnistia e di ampia adesione al governo del primo ministro Hun Sen è stata la massiccia infiltrazione dei khmer rossi nell’amministrazione e nell’esercito. Quando nel 96 il governo cambogiano si vede consegnare dall’ufficio del Cambodian Genocide Program decine di migliaia di documenti originali sui crimini compiuti dai khmer rossi al potere non bisogna stupirsi del suo evidente imbarazzo. Ma la destituzione di Pol Pot nel 97 da parte dei suoi stessi seguaci modifica la situazione: spinto dagli USA il governo chiede l’aiuto dell’ONU per far processare l’ex dittatore usato come capro espiatorio per scagionare i suoi ex luogotenenti che erano riusciti a riciclarsi aderendo al nuovo governo. Con la morte di Pol Pot nel 98 viene rilanciata l’idea di creare un tribunale internazionale ad hoc per processare tutti gli ex dirigenti khmer rossi ancora in vita. Il governo di Hun Sen adotta allora una strategia piena di ambiguità. Innanzitutto chiede ufficialmente un processo generale dei khmer rossi. Ma questo impegno è immediatamente contraddetto da tutta una serie di decisioni: il processo dovrebbe riguardare gli anni compresi tra il 1970 e il 1998 e giudicare i diversi crimini commessi in ogni periodo cioè, mescolati insieme i soprusi dell’esercito repubblicano, i bombardamenti americani, l’occupazione vietnamita e in questa lista anche gli atti dei khmer rossi. In questo modo il concetto di genocidio viene stravolto per diventare la copertura di avvenimenti di natura diversa al solo scopo di scagionare o attenuare la colpevolezza degli unici veri autori del genocidio cioè i primi compagni di Hun Sen. In seguito si cerca di addossare tutta la responsabilità del crimine a due soli capri espiatori dei khmer rossi, incarcerati nel 99. il governo di Phnom Penh ha posto rimedio al problema: la riapertura dei negoziati con l’ONU a fine 2002 si conclude con la firma nel 2003 di un accordo di cooperazione tra giudici internazionali e cambogiani. A questo punto nulla può impedire la celebrazione di un processo che potrebbe iniziare nel 2004.

Tratto da IL SECOLO DEI GENOCIDI di Filippo Amelotti
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