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Categorie sociologiche e dinamiche culturali


L'analisi dei confini della sicurezza sembra non poter prescindere dagli eventi politico-culturali legati alla società contemporanea.
Mai come in questi ultimi anni la sicurezza sembra essere diventata un'esigenza emergente e pressante, esigenza a cui spesso, non si è ancora del tutto accompagnato un adeguato impianto legislativo.
Il rischio,  come categoria di senso comune, viene identificato con una "possibilità di perdita o di danno" verificantesi a seguito di scelte dall'esito imprevedibile. Secondo questa accezione generale l'accento sembra essere posto sulle conseguenze passive del danneggiato, vittima degli eventi che lo coinvolgono. Ma come sottolinea Cipolla, il rischio è anche sfida, apertura verso l'ignoto e verso nuove possibilità esperenziali, è libertà, innovazione e responsabiltà che derivano dal cercare sempre nuove soluzioni e nuove combinazioni per l'azione. E' riduttivo pensare alla sicurezza come azione in grado di prevedere e annullare il rischio.
La sicurezza è la possibilità di elaborare e di rielaborare l'esperienza secondo nuove possibilità che, in un'ottica di complessità ambientale ed esistenziale significa comporre e ricomporre le proprie azioni per far fronte agli imprevisti, possedere quelle capacità di flessibilità e determinazione che consentano di sperimentare nuove alternative e nuove soluzioni, concedendosi la libertà di ritornare eventualmente sui propri passi; sicurezza intesa quindi come "strategia della flessibilità" e non come "improvvisazione e assenza di programmazione".
Alla luce di quanto appena detto, i rischi possono riguardare diversi ambiti:
• l'integrità della persona;
• l'integrità di tutti quei contesti nei quali le persone si organizzano;
• l'ambiente in cui le persone vivono.
A partire da tale distinzione possiamo inoltre identificare una duplice natura del rischio: di carattere fortuito oppure volontario, nel qual caso si entra nel campo dell'illecito e dell'atto deviante.
Normale e deviante non sono categorie immutabili, ma sono delle rappresentazioni sociali variabili sia sincronicamente che diacronicamente. Secondo i contributi dell'antropologia criminale, ma anche della più recente psicoanalisi freudiana, una prima rappresentazione della devianza incontrata nella storia della criminologia, riguarda il concetto di stato patologico inteso come uno stato intrinseco alla persona o una condizione oggettiva dell'atto. tale concezione presuppone una implicazione medico-biologica dell'atto deviante riconducibile ad uno stato di malattia (fisica, biologica, mentale, ecc). In tal caso la normalità sta nella piena funzionalità biologico-psicologica dell'individuo. Un'altra rappresentazione della devianza che emerge dalla storia della criminologia, è quella di deviazione statistica: considera la stessa come una sorta di deviazione/scostamento da una "distribuzione normale" intesa, appunto, in senso statistico. Ma la devianza è stata interpretata anche come una condotta trasgressiva rispetto ad un'interpretazione tendenzialmente funzionalista della società riconducibile ai contributi di Durkheim e Parsons. Secondo tali teorie, la normalità rappresenta il presupposto stesso dell'integrazione sociale e costituisce la condizione naturale delle cose.
Una rapprsentazione della devianza come reazione sociale riconduce ai contributi delle teorie delle subculture e delle teorie del conflitto.
La rappresentazione che ci sembra più orientata dal punto di osservazione adottato è quello di devianza come pluralità compatibile.

Tratto da LA SPENDIBILITÀ DEL SAPERE SOCIOLOGICO di Angela Tiano
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