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Charles-Louis Montesquieu

Razionalità e metodo storico
Il posto di Montesquieu nell'Illuminismo è di pieno diritto. Egli è un protagonista fondamentale di questo movimento di pensiero e ne rappresenta un classico punto di riferimento ma, pur essendo il capostipite dei philosophes, egli si distanzia per certi aspetti dalle loro idee prevalenti per la superiorità accordata al metodo sperimentale, storico e comparativo su quello deduttivo. Non assume perciò un modello unico attraverso il quale misurare le virtù e i vizi di ogni regime politico ma procede piuttosto ad un confronto fra le diverse società globali viste nelle loro specifiche situazioni ed in relazione alla molteplicità dei fattori rilevanti nella loro costituzione e spiegazione. Montesquieu sembra interessato ad un nuovo tipo di realismo: egli sa intendere la libertà come principio universale ma vuole soprattutto studiarla attraverso le condizioni e le mediazioni che ne rendono possibile l'esercizio. In Montesquieu il senso della storia non è rivolto solo verso il futuro ma è ricerca della genesi delle cose, i cui sviluppi, sempre condizionati dalla specificità della loro natura, non escludono involuzioni e andamenti ciclici. Sembrano più vicine alla sua mentalità certe idee vichiane che non la fiducia illuministica nella necessità di progressivi accrescimenti del sapere e delle ricchezze dell'umanità. E' ben visibile in lui un orientamento culturale che lo sollecita ad unire la critica storica con l'analisi sociologica: ogni dato della realtà deve spiegarsi in relazione a tutti gli elementi che lo circondano ed anche la sua positività o negatività non deve essere misurata in assoluto ma attraverso confronti e comparazioni.

Politica e saggezza
Egli intraprende animosamente la lotta al pregiudizio,alla superstizione, al conformismo morale ed al precettismo religioso. Il vero pregiudizio, quello che deforma la coscienza ed avvilisce l'azione umana, è soprattutto il rifiuto di interrogare se stessi e l'incapacità di fare se stessi oggetto del proprio conoscere. Avere idee errate sul mondo esterno è meno grave che non accorgersi di ciò che è cristallizzato ed inespressivo nella propria coscienza ma l'affinamento del senso critico comporta per lui una disposizione favorevole alla moderazione, all'equilibrio, al contemperamento. Bisogna evitare il conservatorismo puro così come l'innovazione fine a se stessa. L'attitudine di Montesquieu è di vedere più cose di quanto sia opportuno giudicare e di ragionare su tutto piuttosto che stabilire nella realtà inalterabili gerarchie di valore e aprioristiche discriminazioni fra verità ed errore.
La sensibilità storica ci consente di percepire il positivo dell'esperienza più di quanto possa fare l'intansigenza intellettualistica ed educa a valersi della cognizione del passato anche per il buon uso del presente. Le tradizioni anacronistiche e improduttive del proprio tempo vanno conosciute e contrastate, i pregiudizi non devono essere assecondati ma non bisogna colpire direttamente e drasticamente queste cose perché una loro rottura brutale potrebbe provocare contraccolpi pericolosi. Egli accetta la ragione come fondamento del sapere ma non pensa che essa possa elevarsi ad esclusivo criterio esplicativo nella vita sociale. Non immettere intenzionalmente l'irrazionale nella vita ma rinunciare anche alla sistematica applicazione di tutto ciò che alla nostra riflessione appare giusto e razionale.
Montesquieu suggerisce insistentemente di non fare attraverso volontà potestative e leggi positive ciò che potrebbe essere fatto attraverso l'abitudine e l'esperienza pratica; è bene diffidare della proliferazione delle leggi perché, se inflazionate,quelle inutili finiscono per indebolire quelle necessarie. Si devono cercare i mezzi per opporsi alle cose abusive, consapevoli che anche nelle correzioni possono manifestarsi degli abusi e che vi è una infinità di cose in cui l'accettazione del minor male è sempre l'attitudine migliore da perseguire. E' saggio comunque riconoscere che i mutamenti positivi sono quelli che non affrettano i tempi e lasciano alle correnti libere dell'esperienza il loro ruolo insostituibile; l'abuso di idealismo rende mal governabili gli affari sociali e la metafisica politica diventa una forma di pigrizia che nasconde dietro la trattazione delle grandi questioni l'incapacità di una strumentazione pratica. Montesquieu non ritiene tuttavia che teorie politiche anche fortemente innovative debbano essere considerate semplicemente utopistiche; la Repubblica di Platone non gli sembra solo un fatto di immaginazione. Il problema che però si pone è di accertare quali sono le reazioni della realtà quando si tenta di applicare in modo autoritativo certi modelli di perfezione. Prima di cambiare bisogna rendersi conto che un insieme di comportamenti sociali dipendono da un regime politico in cui si vive e che tale regime può apparire alla maggior parte dei cittadini come il migliore ed essere quindi oggetto di attaccamento e di rispetto. Montesquieu non fa della libertà un primo principio metafisico però se questa manca, tutto diventa inqualificato e improduttivo per l'uomo e per la società. Egli non vede tuttavia nel potere del popolo la più sicura garanzia della libertà ed è anzi incline a separare la nozione di "potere del popolo"da quella di "libertà del popolo". Non è tanto importante stabilire in teoria quale sia la costituzione libera ma controllare se il cittadino è libero. Montesquieu chiede che la libertà, più che favorire la potenza e l'espansionismo degli stati,assecondi il passaggio da una società chiusa, gerarchica e vincolata al privilegio ad una società aperta e dinamica. Sono da auspicare non tanto i vantaggi che derivano dal vivere in un "grande stato",quanto i vantaggi che derivano dal vivere in una "grande società". Questa espressione "grande società" si ritrova in Adam Smith come ideale di una società moderna caratterizzata da una intensa circolarità, da un rigoglio di attività produttive e perciò più incline a prediligere l'ordine spontaneo di una dinamica fenomenicità sociale rispetto all'ordine costruito secondo le forme tradizionali del potere statale. Troviamo anche in Montesquieu l'idea illuministica del bonheur come legittima aspirazione degli individui e delle comunità. Anche su questo tema egli si esprime però con una tonalità di saggezza aristocratica: la felicità non consiste per lui nel piacere immediato ma piuttosto nella capacità dell'individuo di saper differire il piacere con la fondata speranza, comunque, di saperlo ritrovare quando vuole. L'idea del bonheur si congiunge a quella della tolleranza e della benevolenza. Sul problema del rapporto tra la politica e la religione Montesquieu ritiene che quest'ultima, ispirando molti atteggiamenti morali, favorisca la forza coesiva della società ma non vuole che nella vita pubblica la religione si presenti come "una paura aggiunta alla paura"e che i suoi dogmi, confusi con i metodi scientifici,fomentino l'intolleranza . E' necessario che le religioni non disturbino lo stato e che non si disturbino fra loro; egli ammette la pluralità delle fedi religiose, vista come un buon antidoto contro il settarismo e la concentrazione monopolistica del potere ecclesiastico, e chiede che la libertà religiosa sia sempre garantita. Non bisogna, d'altra parte, preoccuparsi eccessivamente se la religione accoglie il dubbio e diventa problematica perché anche nella professione di ateismo è sempre presente il problema di Dio. L'ateismo pericoloso sarebbe quello pratico che non si pone neppure il problema di Dio ma dove questo problema rimane comunque aperto,si è sempre in presenza di una attività spirituale. Il criterio ispiratore per regolare i rapporti fra la religione e la politica è di non statuire collegi divini ciò che deve essere statuito con leggi umane e, inversamente, di non applicare le leggi umane a ciò che appartiene ad un altro ordine di valori. Vi è comunque in Montesquieu il convincimento che,malgrado le deformazioni assolutistiche che ha conosciuto nella sua storia, la religione cristiana "è lontana dal dispotismo" e che in essa la libertà gioca un ruolo importante; in questo senso il cristianesimo non è soltanto preparazione ad un mondo ultraterreno ma contribuisce anche, opponendosi alla tirannia, a fare la felicità degli uomini in terra.

Le leggi e il potere
Montesquieu può considerarsi, insieme a Locke, il fondatore del costituzionalismo moderno anche se la sua dottrina politica e giuridica è ancora pervasa da un certo spirito aristocratico contro cui hanno reagito altri philosophes. L'Esprit de lois ha conosciuto negli ambienti illuministici una serie di commenti critici che,pur riconoscendo il valore di quest'opera, ne hanno tuttavia individuato i limiti consistenti soprattutto nel fatto che l'ordine costituzionale, come Montesquieu lo propone, si fonda su un equilibrio di poteri, ciascuno dei quali è munito di una propria origine e legittimazione senza un diretto riferimento a un'idea comune di libertà e di diritto e senza accettazione di una fonte essenziale e unitaria di legittimazione dell'autorità e dell'obbligazione politica. Nessuno di questi interpreti ha però negato i suoi meriti nella lotta al dispotismo e nel rinnovamento della conoscenza politica. Studiando la società, osserva Montesquieu, ci si trova sempre davanti ad una infinità di leggi, di costumi e di istituzioni diverse. Il problema che si pone è se ogni sistema politico e giuridico sia determinato soltanto dalla fortuna e dalla fantasia o se risponda a certe leggi, se riveli delle costanti, se consenta di scoprire dei fattori preponderanti nella spiegazione della sua natura e del suo funzionamento. Egli rifiuta di considerare gli ordinamenti politici come semplice prodotto dell'azzardo ma neppure fa propria l'ipotesi di Machiavelli e di Hobbes che sia soltanto la volontà del potere a rappresentare la condizione costitutiva ed esplicativa di tali ordinamenti; il potere è essenziale alla politica ma non può elevarsi a principio causativo incondizionato della fenomenicità sociale e politica. E' abusivo intendere il potere come un deus ex machina che stabilisce un certo ordine in base ad un programma imposto con volontà egemonica; il potere non è una realtà anteriore e superiore alla società ma si forma attraverso gli stessi processi costitutivi della realtà coesistenziale. Montesquieu sostiene che la vita sociale è retta da certe leggi, anche se queste hanno un carattere dissimile da quello delle leggi fisiche e naturalistiche. Nella società "le leggi sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose"; questa definizione sembrerebbe evocare ancora un principio giusnaturalistico ma il pensiero di Montesquieu si discosta notevolmente dai motivi ispiratori del diritto naturale tradizionale. La legge dipende dalla ragione umana e non da una ratio metafisica e la sua natura "è di variare a seconda del mutare delle volontà degli uomini". Ogni sistema normativo si riferisce ad un determinato campo di situazioni e deve spiegarsi con criteri storici, sociologici e comparativi e non in funzione di valori assoluti. Così, nella sua definizione, la nozione di rapporto esprime un coordinamento risultante da azioni e reazioni reciproche entro ambiti specifici di attività umane e sociali; lo stesso per quanto riguarda il concetto di necessario che è inteso come espressione di oggettivazioni sociali corrispondenti ad una certa distribuzione di comportamenti ed alla loro più adeguata disciplina normativa. I rapporti necessari sono quelli suscettibili di costituire insiemi sociali relativamente omogenei. Anche il concetto di cosa non denota realtà ontologicamente stabilite ma fenomeni umani e sociali visti nella loro struttura composita fatta di elementi ideali e naturali, qualitativi e quantitativi; il rapporto necessario fra le cose sta quindi ad indicare che la legge commisura atti e fatti umani entro certi quadri di riferimento. In questa prospettiva la legge non è emanazione di imperativi metafisici, così come non è semplice derivazione del potere: più che un principio di dominazione ontologicamente, razionalmente o potestativamente stabilito, la legge è la risultante di tutte le distribuzioni dei fenomeni sociali. Con ciò il significato della legge si restringe rispetto all'universalismo giusnaturalistico ma si dilata e si complica rispetto alle ristrettezze ed alle semplificazioni di una concezione puramente autoritaria del diritto.

Libertà umana e determinismi sociali
La società per Montesquieu non è una superficie piatta ma conosce una molteplicità di livelli differenziati e non si riduce perciò ad una semplice somma di rapporti fra individualità. L'idea di individui staccati dai loro contesti sociali,chiusi in una loro autostabilità, che si conoscono e che costituiscono la società attraverso relazioni intersoggettive esteriori e convenzionali (idea non estranea alle correnti più individualistiche dell'Illuminismo) non appare a Montesquieu scientificamente plausibile: egli vede le relazioni interpersonali in riferimento a strutture sociali che le sostengono e le spiegano. D'altra parte non gli sembra accettabile l'idea del sociale come un tutto compatto e indifferenziato, come collettività indecomponibile che assorbe tutte le forze partecipanti; di qui il riconoscimento del naturale pluralismo della vita sociale. Egli precorre il metodo sociologico: riprendendo idee di Aristotele e sviluppando quelle di Bodin, accentua l'importanza della base morfologica ed ecologica della società. La posizione e l'estensione del territorio, la natura del clima, la distribuzione della popolazione, il "fisico" di ogni paese condizionano direttamente la vita dell'uomo e rappresentano il primo quadro di riferimento per i fenomeni sociali. Questa base fisica o questa densità materiale della società è tuttavia connessa a dimensioni più profonde, prodotto dell'attività umana; si trova così il mondo delle organizzazioni sociali cioè dei comportamenti rivolti al perseguimento di fini e di opere comuni. Tali organizzazioni dipendono dal genere di vita dei popoli, dalle loro occupazioni, dalla combinazione dei fattori produttivi e dalla distribuzione delle ricchezze e a loro volta i modi di vita e le forme di produzione risentono di un complesso simbolismo costituito dalle idee e dalle credenze di natura morale e religiosa, così come da quelle derivanti dal costume e dall'appartenenza ai diversi status sociali. Questo mondo simbolico si evolve e si modifica con l'educazione che Montesquieu considera in una sua articolazione composita: la prima matrice di socializzazione culturale dell'uomo è la famiglia, viene poi l'educazione dei maestri ed infine l'educazione del "mondo" che si esplica nel campo del lavoro e delle attività pratiche. Montesquieu utilizza l'espressione "struttura" per indicare l'insieme composito di ogni realtà sociale, sempre sollecitata dalle due forze opposte del determinismo e della libertà. La libertà umana rappresenta quel settore privilegiato della realtà che ha la consapevolezza critica e la possibilità pratica di opporsi al peso della tradizione e di cercare nuove garanzie per gli individui e per le loro comunità; tale libertà, tuttavia, è sempre situata e condizionata e vive in una perenne dialettica con i determinismi sociali. Libertà e determinismo sono dunque forze intrinsecamente mescolate nella vita sociale, che si limitano e si controllano reciprocamente e fra le quali sussistono d'altronde stati non solo di polarizzazione ma anche di complementarietà. Per l'azione della libertà il determinismo si scompone in una pluralità di determinismi parziali; la libertà passa quindi fra questi determinismi e può in vario modo equilibrarli ma, a loro volta, essi impediscono alla libertà di presentarsi come un concetto puro, pertanto la costringono ad articolarsi in una molteplicità di determinazioni particolari. La politica non consente un'alternativa radicale fra libertà e determinismo e si presenta piuttosto come l'arte di combinare queste due diverse direzioni dell'esperienza in modo che il risultato complessivo sia umanamente accettabile e socialmente produttivo. La legge è appunto chiamata a dare a questa pluralità della vita sociale ed a questa dinamica di rapporti fra libertà e determinismi una proporzione stabile ed efficace; la legislazione deve rispettare la natura specifica dei fenomeni che ordina. La legge non corrisponde ad un paradigma universale, non rimane sempre uguale a se stessa, non deriva da essenze intangibili: essa trae origine dalla società e varia secondo le situazioni storiche.

Le forme di governo. La monarchia
Con queste analisi storiche, sociologiche e comparative Montesquieu delinea le tipologie fondamentali dei diversi regimi sociali e delle corrispondenti forme di governo: queste ultime, quindi, sono direttamente collegate alla "natura" specifica dei diversi consolidamenti ed equilibri strutturali. Le specie di governo che Montesquieu prende in considerazione sono essenzialmente tre, quella democratica e repubblicana, quella monarchica e il dispotismo. Le sue preferenze si rivolgono prevalentemente alla monarchia, intesa tuttavia come monarchia limitata e costituzionale, e come tale nettamente distinta dalla tirannia. Egli ammira la costituzione inglese "che ha come oggetto diretto la libertà politica" e che tale libertà garantisce attraverso reciproci limiti e controlli fra poteri differenziati, ciò non significa però che Montesquieu non parli con intendimenti sostanzialmente positivi anche dei regimi repubblicani e democratici, non troppo dissimili per lui da quelle forme più temperate che egli predilige. Il passaggio dalla monarchia alla democrazia, o viceversa, non implica quelle esasperate lacerazioni provocate invece dal passaggio da una o l'altra di queste forme al dispotismo che è alterazione radicale di ogni libertà individuale e collettiva. Montesquieu presume comunque che la monarchia dia maggiore affidabilità per sostenere il destino della libertà e si preoccupa quindi più di ammodernarla che non di sostituirla con dei regimi popolari. A suo giudizio non è il governo democratico il punto più alto dell'organizzazione sociale e politica ma è piuttosto quello costituzionale monarchico, più disponibile alla moderazione e più adatto a garantire la divisione dei poteri; si ritrova in Montesquieu un'idea che aveva sostenuto anche Vico. Il regime monarchico presuppone una grandezza media del territorio, non troppo ridotta perché le piccole dimensioni favoriscono forme democratiche e di autogoverno, non troppo estesa perché i grandi imperi tendono ad essere dominati da un potere dispotico. Il regime monarchico conosce un certo pluralismo che assume però un carattere conservatore e gerarchico. Per sua natura la monarchia ostacola una dinamica intensa ed aperta di scambi sociali ed in campo politico e morale tende piuttosto a riferirsi a valori essenziali e permanenti; vi è nel regime monarchico un sistema di "poteri intermediari" ma il decentramento delle istituzioni non deve compromettere i necessari vincoli di dipendenza. I fondamenti di questa struttura politica sono la regalità e la nobiltà; quest'ultima ha una sua sfera di relativa autonomia funzionale ma non può sussistere senza riferirsi al potere del sovrano, il quale è, a sua volta, tenuto a rispettare le prerogative dell'aristocrazia. Monarca e nobiltà sono due istituzioni che devono reciprocamente garantirsi, subordinandosi entrambe ad un principio di legalità; il loro potere è infatti limitato e trattenuto da un insieme di principi normativi che Montesquieu considera espressione di una "volontà generale dello stato". Le tutele fondamentali della legalità consistono per lui soprattutto nel principio della divisione dei poteri, di rilevanza fondamentale anche nel regime monarchico; la politica costituzionale deve proporsi come teoria e pratica del potere limitato. Egli considera poteri fondamentali dello stato quello legislativo, quello esecutivo relativo alle materie che dipendono dal diritto internazionale e quello esecutivo relativo alle materie che dipendono dal diritto civile e che Montesquieu designa come potere giudiziario. Il potere legislativo appartiene al popolo che lo esercita attraverso i suoi rappresentanti, eletti nei diversi distretti dai cittadini; tale potere legislativo è tuttavia composito, in quanto diviso fra il popolo e la nobiltà. Montesquieu pone così un limite alla sovranità popolare perché il potere legislativo non emana dalla uguale libertà di tutti i membri della comunità; l'argomentazione che egli fa valere è che esiste nello stato un ceto sociale diverso per nascita, per ricchezze e per onori. Questo corpo dei nobili manterrà un carattere ereditario, in modo da avere sempre interesse a conservare delle prerogative; tale legittimazione del privilegio aristocratico sarà criticata dalle correnti liberali e democratiche che hanno preparato la Rivoluzione francese e che accusano Montesquieu di non aver riconosciuto il principio della sovranità popolare come criterio essenziale di tutti i poteri statali e di tutte le funzioni pubbliche. Nel costituzionalismo di Montesquieu il potere esecutivo è nelle mani del monarca il qual però partecipa indirettamente anche all'attività legislativa, non solo convocando le assemblee e stabilendo i tempi della loro durata ma anche disponendo del diritto di veto nei confronti delle loro delibere. Condizione fondamentale dell'equilibrio costituzionale è inoltre, nel suo sistema, l'indipendenza del potere giudiziario: viene riconosciuta ai cittadini una certa discrezionalità nelle scelta dei propri giudici ed un diritto abbastanza ampio di ricusazione ma nessun margine di autonoma valutazione creativa e di interpretazione innovativa è riconosciuta ai magistrati. In nessun caso spetta ai giudici sostituirsi al potere legislativo modificando la legge. Montesquieu è consapevole che il meccanismo dei pesi e dei bilanciamenti fra i poteri che ha teorizzato rischia di portare al veto reciproco e quindi all'immobilismo ma queste tre potenze "saranno obbligate a procedere di concerto". La "natura" di un regime politico non basta, tuttavia, di per sé a spiegarne il funzionamento, bisogna cercare anche quel "principio" ispiratore che fa muovere l'ingranaggio istituzionale dandogli la necessaria, peculiare tensione e sollecitazione ideale o passionale. In ogni forma di governo possono sussistere "principi" di diversa ispirazione ma ve n'è uno predominante che meglio ne spiega il comportamento generale e la produttività complessiva. Nella monarchia questo principio fondamentale è l'onore, un pregiudizio in grado tuttavia di integrare i fenomeni sociali in un sistema gerarchico nel quale i ceti subordinati si immedesimano in quelli superiori attraverso un'etica della devozione che vede la realizzazione di ciascuno collegata alle funzioni che egli svolge all'interno del corpo sociale. Questo principio dell'onore, anche se fondato sulla disuguaglianza, non è però solo un vincolo dei sudditi nei confronti del sovrano: esso agisce anche in senso discendente perché pone dei particolari doveri al sovrano nei confronti del popolo. In questo senso, afferma Montesquieu, l'onore è un principio sconosciuto negli stati dispotici, mentre nella monarchia impedisce al sovrano di prescrivere azioni disonoranti perché ciò svilirebbe la stessa qualità dell'obbedienza. La virtù dell'onore, quindi, contribuisce, insieme a tutte le altre limitazioni e garanzie istituzionali, ad evitare la degenerazione del potere monarchico nella tirannia e configura la nozione di bene pubblico come nettamente distinta dal bene personale e dall'egoismo dei detentori dell'autorità. In questa struttura della società la libertà è piuttosto un privilegio che un diritto comune ma i privilegi possono estendersi a parti sempre più numerose del corpo sociale.

Il regime democratico

Il regime politico che dovrebbe più direttamente sostenere lo sviluppo della libertà è quello popolare e democratico. Il regime popolare e democratico si differenzia da quello monarchico sia per la struttura della società globale da cui emana, sia per il principio fondamentale che ispira ed orienta i comportamenti sociali rilevanti; tale regime è favorito da un'estensione media del territorio, tale da consentire una più intensa partecipazione politica dei cittadini e forme di autogoverno della comunità. Quella democratica è una società più aperta di quella monarchica, meglio disposta ai mutamenti ed all'emancipazione delle sue diverse componenti e lo spirito di commercio, relativamente estraneo alla logica politica della monarchia, serve nelle repubbliche ad attivare la produzione economica e gli scambi, ad assecondare ideali di pace ed a sminuire e smentire le distinzioni di rango e di casta fra i consociati. Questa società, economicamente più dinamica, ha bisogno di leggi che impediscano il formarsi di grandi ricchezze. La vocazione fondamentale della democrazia è il perseguimento dell'uguaglianza, che non deve però radicalizzarsi e portare al livellamento ed all'uniformità. L'egualitarismo indiscriminato è pericoloso per l'uguaglianza quanto lo è per la libertà quell'estremismo libertario che, sconfinando nella licenza, è causa di disgregazione sociale e di conseguenti tentazioni di riconversione assolutistica. In campo economico l'uguaglianza deve perciò essere compatibile con le differenze di potenziale necessarie per stimolare i meccanismi produttivi; una certa liberalizzazione del lavoro e degli scambi sociali rende più espansiva la società democratica che deve, tuttavia, preoccuparsi di controllare il suo attivismo con un'etica della moderazione e della temperanza. L'uguaglianza non rivela la sua positività se discredita la mediocrità e l'austerità e se non sa assimilare valori di saggezza, di tranquillità, di ordine e di regola.
Il principio ispiratore di un regime democratico è per Montesquieu la virtù dei cittadini, da non intendere tuttavia né come sublimazione spirituale, né tantomeno nel significato che le attribuiva Machiavelli. La virtù democratica è, d'altra parte, incompatibile con quell'arte politica consistente essenzialmente (come per Machiavelli) nell'abilità ad acquisire potere, ad assoggettare le controparti ed a reprimere i dissidi. Il "principio" della democrazia è la consapevolezza che, non essendo il suo ordine politico semplice derivazione di imposizioni potestative, ciascuna parte deve assumere in proprio delle responsabilità, dar prova di una certa capacità di autogoverno, non esasperando le tensioni e gli antagonismi sociali ed evitando che le tendenze all'eterogeneità scompaginino le necessarie integrazioni; se, infatti, la democrazia, sostenuta dallo spirito di commercio, unisce i popoli e le nazioni in una prospettiva di progressiva pacificazione, "non unisce allo stesso modo i singoli individui". Anche la democrazia deve comunque darsi un sistema istituzionale fondato sul principio della divisione e del controllo reciproco dei poteri. Un governo repubblicano può avere però anche una certa accentuazione oligarchica ed assumere forme aristocratiche. In questi casi i valori democratici non si manifestano nella loro pienezza ma non sono insignificanti perché i governi oligarchici repubblicani non derivano la loro autorità, come la monarchia, da una fonte diversa da quella popolare e non possono perciò prescindere dal consenso dei cittadini. Sono però regimi che hanno una loro ambiguità politica: rivelano una capacità di decisione e di governo che la democrazia può non avere ma mentre riescono agevolmente a limitare il potere degli altri corpi, hanno difficoltà a limitare il proprio. Il governo oligarchico si giustifica, nella democrazia, se sa riferirsi alla volontà generale del popolo e se sa assumere la moderazione come suo principio ispiratore.

Le garanzie costituzionali
Monarchia e democrazia si differenziano come regimi politici, come sistemi sociali, come strutture economiche, come insieme di simboli e di valori ma trovano certi tratti accomunanti nel fatto che in entrambe il problema della libertà assume una sua specifica rilevanza istituzionale e morale e commisura il grado di incivilimento della coesistenza. In questi regimi la libertà non rappresenta soltanto un'esigenza del pensiero ma si pone anche come principio costituzionale e quindi la protezione delle istituzioni che la difendono è un dovere solidale dell'autorità e degli individui. La democrazia è più adatta a definire ed a far valere la nozione di libertà comune ma non si può trascurare il vantaggio che anche la monarchia controllata e temperata può rappresentare per la sua difesa. Monarchia e democrazia sono dei tipi ideali che Montesquieu considera nelle loro diversità ma anche nella loro solidale attitudine ad opporsi alla tirannia.
Il valore della libertà è dunque per Montesquieu intrinsecamente connesso al sistema normativo che la protegge e la regola. Il primato delle leggi vale anche nei confronti della libertà: essere liberi non significa fare ciò che si vuole, bensì "la libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono". "Ci sono due tipi di corruzione: l'uno quando il popolo non osserva le leggi, l'altro quando il popolo è corrotto dalle leggi" ma è appunto perfezionando l'ordine costituzionale che la libertà dei cittadini diventa meglio tutelata. La difesa contro la paura è, per Montesquieu, l'esigenza fondamentale ed egli sostiene che la massiccia concentrazione del potere è, di per sé, una ulteriore minaccia e che la riduzione ed il controllo della paura vadano piuttosto affidati a garanzie politiche e giuridiche in grado di opporsi all'autorità incondizionata.

Il dispotismo
Nessuna garanzia è invece possibile nella terza forma di governo rappresentata dal dispotismo. La società dispotica implica una progressiva eliminazione dell'indipendenza degli individui, così come un progressivo svuotamento delle loro appartenenze e solidarietà comunitarie; oltre che sugli individui la violenza del dispotismo si esercita sui legami fra l'individuo ed i loro gruppi sociali. Nel dispotismo l'individuo è ridotto in uno stato di nuda e pura esistenzialità e non ha punti di riferimento che gli consentano di reagire all'oppressione del potere centrale dominante. Il dispotismo non conosce leggi che possano essere interpretate come limiti nei confronti del potere, non ammette principi di intermediazione sociale e non ha alcuna propensione a correggere la volontà del principe per farla arrivare al popolo senza esclusivismo arbitrario. Non c'è nessuna razionalità delle norme giuridiche, né alcun deposito di leggi da cui possano attingersi principi di legalità; svuotamento quindi dei corpi intermedi, di ogni sistema di remore politiche, di ogni criterio di certezza del diritto: nel dispotismo la legge non è altro che la volontà del principe. Oltre che affronto alla libertà politica e civile il dispotismo è supremo disprezzo di ogni forma culturale e diventa, quindi, il regno dell'ignoranza. Esso agisce attraverso l'immediatezza dei suoi impulsi volizionali, senza porsi il problema delle conseguenze dei suoi atti potestativi sulla vita dei soggetti e delle comunità; ha perciò un effetto devastatore nella società, disgregandone e corrompendone tutte le capacità riproduttive. La potenza del despota è tale da compromettere la sua stessa attività politica: se tutti i cinque sensi dicono ad un uomo che è onnipotente e che non c'è nessuno che possa compararsi a lui, è naturale che costui finisca preda di un singolarismo assoluto, di un narcisismo totale che lo rende inadatto alla conduzione degli affari pubblici. Il sovrano si vede perciò costretto a delegare, come nel dispotismo orientale, ad un alter ego, ad un vizir, tutto un insieme di poteri che egli non saprebbe personalmente esercitare; così a tutti i suoi eccessi il dispotismo aggiunge anche quello di un trasferimento di potere a persone che ne faranno un uso ancora più arbitrario ed irresponsabile. Se questa è la struttura della società dispotica, il suo principio non può che essere la paura, la quale può assumere anche la forma del terrore. Non c'è posto per l'onore perché quando il potere è così brutale, esso inaridisce ogni sorgente di moralità, ivi compresa la moralità della devozione; ancor meno vi può essere virtù dei cittadini perché nel dispotismo l'unica libertà è la libertà di scampo, cioè il tentativo di sfuggire ai furori di una potenza incontrollata. Tale paura non agisce solo in senso verticale: il despota non considera però completa la sua opera se la paura ed il terrore, usati come strumenti di governo, non si trasmettono anche ai rapporti orizzontali fra i sudditi. La paura trionfa quando diventa la logica essenziale di comportamento dei sudditi nei loro rapporti, cioè quando ciascun uomo ha paura dell'altro uomo. Il dispotismo si presenta a Montesquieu come il dramma della vita politica, come il fallimento totale del potere.

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