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Comunità albanese e cure all'infanzia


Le donne appartenenti alla comunità albanese della città in cui sono state realizzate le interviste hanno dichiarato che generalmente, nel loro paese di origine, il maschio non entra nell’universo della crescita dei bambini anzi è spesso una figura temuta sia dalle mamme che dai bambini. La società albanese viene descritta dalle donne come patriarcale e patrilineare basata ancora molto sul rispetto del Codice delle Leggi Tradizionali; quest’ultimo infatti, anche se illegale da tempo, è ancora fortemente evocato con rispetto perché determina la ferrea legge del potere del clan familiare e della supremazia maschile. Ad esempio l’art 28 ha sancito per moltissimo tempo che il marito comprasse, attraverso la dote, il lavoro e la convivenza con la donna ma non la vita che comunque valeva meno di quella di un uomo. In base al Codice delle Leggi Tradizionali infatti se la donna uccideva un uomo erano i parenti maschi di questa a rispondere del sangue versato mentre al contrario la donna poteva essere uccisa per adulterio o mancato senso di ospitalità senza il permesso dei suoi familiari. Per quanto riguarda lo specifico della gravidanza, nascita e puerperio invece sia le ragazze che le donne sposate ci dicono di aver sempre usato molto poco il ginecologo perché direttamente collegato al sistema di controllo morale e politico esercitato dal regime totalitario vigente nel paese di origine. In Albania i rapporti prematrimoniali sono stati per lungo tempo per lo più a rischio visto che la pillola era prescritta solo come cura e il preservativo era introvabile. Così l’unico metodo era l’aborto clandestino con le relative problematiche che esso comporta. Inoltre il trattamento era diverso a seconda se il figlio era legittimo o illegittimo cioè more uxorio: mentre nel primo caso venivano riservati i cibi e i trattamenti migliori nel secondo c’èra l’isolamento sociale che neanche il matrimonio riparatore poteva eliminare. Il medico si recava a domicilio, c’era la fasciatura, l’attività materna era condivisa con le altre mamme della famiglia allargata e i padri praticamente partecipano solo alla costruzione di seggioloni, culle ecc. La nascita e la cura dell’infanzia erano e rimangono un affare da donne per cui gli uomini non possono assistere al parto e l’unica presenza ammessa è l’ostetrica. Ancora oggi quindi i parenti accompagnano la donna fino all’ingresso della struttura sanitaria (momento soglia) e per rivederla solo dopo il parto, al momento delle dimissioni. Quindi mentre la gravidanza è vista come un momento di unione da condividere con le altre donne della famiglia il parto no, probabilmente perché vissuto come il sesso cioè come un momento di cui avere vergogna. Da un punto di vista culturale molto importante risultano essere ancora oggi la forma della pancia per predire il sesso del nascituro e le voglie delle gravide per le quali c’è un accettazione incondizionata. Anche la notte e la luna giocano un ruolo fondamentale (non si stendono i panni di notte) per via degli spiriti maligni e dell’influenza negativa della luna. Mentre in Italia c’è una concezione di famiglia che da estesa si è nel tempo trasformata in nucleare, quindi rispetto alla cura e all’educazione dei figli ad esempio non sono più le donne della famiglia ad occuparsene ma la coppia in cui il padre sta assumendo sempre più un ruolo importante, nella cultura albanese la famiglia è di stampo esteso. Si assiste così al fenomeno del bambino circolante; il piccolo cioè è affidato a numerose e parentali figure di accudimento anche se questo non limita affatto il rapporto esclusivo della diade  madre/bambino. Appare evidente che per queste donne spesso l’esperienza migratoria si trasforma in un mondo degli opposti: al posto della famiglia allargata c’è una mediatrice, gli uomini che di solito non si occupano di queste cose sono costretti a farlo così come i figli visto la loro migliore capacità linguistica. La donna quindi perde la sua corte adorante e affronta tutto da sola: la preparazione del corredino, le confidenze sui sogni e le aspettative, le speranze dell’attesa che diventano così quasi inutili perché non condivisi. Il pericolo di una depressione più o meno grave trae origine proprio dalla mancanza di un significato collettivo e condiviso dell’esperienza vissuta. Passare da una realtà molto protettiva e solidale ad una in cui devi gestirti in completa solitudine è molto difficoltoso. Per quanto concerne il puerperio poi anche nella cultura albanese vi sono numerosi rituali legati ai famosi 40 giorni successivi al parto, la quarantena appunto: ad esempio la donna non deve venire abbracciata o uscire di casa neanche per recarsi in chiesa o in moschea. Tutto ciò appare legato profondamente al concetto di impurità e di vergogna per aver dato la vita. Relativamente alla cura dell’infanzia quindi è chiaro come nella cultura albanese il bambino cresca sempre insieme agli altri: tutto ciò ha rilevanza educativa perché il gruppo dei coetanei riveste un importanza fondamentale nella socializzazione e nella crescita pedagogicamente intesa che non passa solo attraverso oggetti precisi ma attraverso le relazioni significative che il bambino instaura. Così come la cura allevante anche quella relativa alle malattie è sostenuta da un forte coinvolgimento familiare: all’interno dell’organizzazione familiare albanese infatti i compiti educativi vengono suddivisi tra le donne in modo da condividere sia le responsabilità domestiche che quelle di cura. Così si possono condividere sia i momenti felici che quelli dolorosi chiedendo anche consigli pratici ed operativi alle donne della famiglia. Ma se l’esperienza della migrazione rende impossibile la presenza della rete femminile di supporto tutto ciò può facilmente diventare motivo di sofferenza.

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