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Concezione di coscienza in Dewey



A proposito del rapporto mente – corpo Dewey sostiene che non esiste dualismo tra loro, ma l’uomo è un’unità psico-fisica. Essi rappresentano ancora una volta due funzioni dello stesso organismo. Stesso discorso vale per la coscienza: essa non è come per i realisti qualcosa di indipendente rispetto alla realtà e non è nemmeno, come volevano gli idealisti, qualcosa che racchiude in sé tutta la realtà e la riduce a se stessa. Per Dewey la coscienza è il momento in cui l’esperienza rivela la sua dimensione problematica: se cammino semplicemente per strada sto interagendo con l’ambiente circostante; ma se per strada incontro delle pozzanghere prendo coscienza del mio camminare perché l’ambiente mi sottopone ad una situazione problematica che mi porta non semplicemente ad interagire con l’ambiente, ma anche a trasformarlo o correggerlo (dovrò correggere continuamente la direzione dei miei passi per non sprofondare in una di quelle pozzanghere). Dunque la coscienza non ha valore ontologico ma ha una funzione relativa all’esperienza. Per finire anche l’io assume un significato particolare all’interno di questa concezione: anche per l’io non esiste alcuna valenza ontologica; esso non è concepito come sede ontologica e psichica della specifica individualità dell’individuo. Dewey sostiene che nella stragrande maggioranza delle esperienze l’uomo si comporta esattamente come si comporta tutto il gruppo all’interno del quale vive. A questo sistema di comportamenti Dewey dà il nome di “spirito” chiamando come Hegel “spirito del popolo” l’insieme degli aspetti che determina il comportamento di un ambiente. Soltanto quando un singolo riesce ad andare oltre lo spirito del popolo si può parlare di io. Si parla allora di io solo quando l’individuo esercita la sua funzione creativa.

Tratto da STORIA DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA di Carlo Cilia
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