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Cultura di guerra e fantasmi genocidiari di una generazione SS


I dirigenti dell’apparato repressivo cioè quelle poche centinaia di ufficiali SS, vera e propria elites del terrore, rappresentano l’anima del genocidio sia per le cariche che hanno ricoperto sia perché hanno partecipato all’avvio del processo di sterminio. Questi uomini appaiono ben diversi dall’immagine comune del carnefice: non sono assassini psicopatici né burocrati e ingegneri sociali ma rientrano nello stereotipo del giovane universitario estremista. L’iter politico-sociale di questo gruppo è caratterizzato da una forte coscienza generazionale unita a un considerevole bagaglio culturale e una socializzazione politica estremista. Appartengono tutti alla generazione nata tra il 1903 e il 1915, quella dei figli della guerra, provengono per la maggior parte dalle classi medie emergenti, hanno conseguito un titolo di studio superiore, hanno studiato all’università. Appartengono a una vera e propria elite socioculturale soprattutto se paragonati ai dirigenti del partito nazista, meno colti e di estrazione popolare. Essendo figli della guerra, la loro educazione è permeata di quella cultura di guerra che tutti i belligeranti hanno trasmesso ai loro discendenti. Quei giovani hanno coltivato l’odio per quel nemico disumanizzato che era onnipresente nella loro vita di bambini e scolari. Hanno interiorizzato gli argomenti ufficiali che giustificavano le repressioni e le atrocità commesse dall’esercito in guerra. Hanno condiviso la visione social darwinista di una guerra giusta della Germania che lottava per la propria sopravvivenza in un mondo di nemici. Non avendo vissuto in prima persona la realtà del campo di battaglia si sono nutriti della versione eroica e immaginaria del conflitto nel contesto di una Germania vinta e in piena crisi politica, economica e sociale. Per questi futuri quadri SS l’antisemitismo diventa fondamentale: al centro dei dibattiti dell’università nazionalistica dell’epoca di Weimar il nuovo antisemitismo rompe con quello estremista tradizionale che non andava oltre le ingiurie e le brutalità del pogrom. L’ebreo è ormai concepito come l’oggettivo alleato del nemico sia dell’est che dell’ovest, di cui incarnerebbe i principi filosofici e politici.

Tratto da IL SECOLO DEI GENOCIDI di Filippo Amelotti
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