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Dante Albanesi, la critica come letteratura

Dante Albanesi, la critica come letteratura




Al centro del suo intervento c’è la nozione di critica come letteratura; ma in prospettiva rovesciata. Ciò che il critico non può non fare è di trasformare impoverendola l’opera di cui si parla – ARTISTA-OPERA1-CRITICO-OPERA2-PUBBLICO –. Sarà necessario cominciare a percepire la critica non più come un’istituzione al di sopra delle parti, ma come un concreto circuito di riconversione interno ad esse, teso a mutare, a transmediare, sia lo statuto fruitivi di un pubblico, sia la materialità stessa del lavoro di fruire.
Per Bruno e Canova lo stupro testuale avveniva attraverso l’uso autoritario del Metodo, mentre per Albanesi esso avviene a causa della natura del medium scrittura; ne consegue che tutti i problemi della critica vanno ricercati in quella originaria inconciliabilità dei linguaggi.
Secondo Albanesi, la critica cinematografica è la scena del trionfo della scrittura e dell’occultamento della realtà del cinema; essa per uscire dall’impasse mediologico che la costituisce a priori dovrebbe ritornare a fare i conti non tanto con la nozione di non filmabile, quanto con quella di non scrivibile, indeterminato regno che separa il saggio più penetrante o uno story board millimetrico delle pellicole che questi vorrebbero evocare. Bisogna imparare ad audio-vedere il cinema, a filmare il filmato, a farsi cine-critico. Come si vede siamo nel campo della sindrome mimetica.
La critica cerca una nuova intimità con le immagini. C’è chi lo fa attraverso uno sguardo plurimetodologico – come Bruno con il suo concetto di operazione -. C’è chi propone una post-cinefilia militante che tenti di mantenere in vita l’agonizzante valore etico-collettivo dell’immaginario cinematografico – come Canova. E c’è chi auspica la nascita di una videocritica diffusa, sul modello di Fuori Orario – come Albanesi.

Abbiamo seguito le tre principali manifestazioni della crisi del metalinguaggio critico insufficiente a dire le immagini:
1) il progetto di una critica endogena, plurimetodologica, basata sul concetto di operazione – qualcosa che non sopporta un metodo ma ne prefigura un altro – elaborato da Bruno, cioè l’utopia di una autarchia enciclopedica che riesce ad esaurire tutte le pertinenze richieste di volta in volta dall’oggetto;
2) l’idea di una nuova critica postcinefilica che sappia rinvigorire il fantasma dell’immaginario collettivo attivato dal cinema proposto da Canova, cioè l’utopia di un unico orizzonte di senso;
3) il desiderio, espresso da Albanesi, di una pratica di analisi mimetica nei confronti dell’oggetto di studio, capace di fare corpo unico, di con-fondersi – come fa la videocritica – con l’oggetto stesso, cioè l’utopia di una prossimità assoluta, in tempo reale con il linguaggio audiovisivo.
Secondo Buccheri, la parte più interessante della metacritica è forse il continuo richiamo all’importanza del non calcolabile.
La semiopragmatica, al contrario di come pensa Bruno, può ancora tornare utile, basta aggiornarla alla luce di interrogativi generici. In definitiva, la critica vive benissimo anche senza teorie, così come è in grado di sopravvivere senza l’appoggio dell’istituzione critica stessa. La critica non esiste, dice Canova, ci sono solo i critici e la loro attività di scrittura.
 

Tratto da CRITICA CINEMATOGRAFICA di Nicola Giuseppe Scelsi
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