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Definizione di antropologia


Sir Edward Tylor, nel 1871, dice: La cultura, presa nel suo significato etnografico più ampio, è quell’insieme che include conoscenze, credenze, arte, morale, legge, costume e ogni altra capacità e usanza acquisita dall’uomo come appartenente a una società. Ruth Benedict dice: La cultura è ciò che tiene insieme gli uomini.
Tutte le varie categorie della vita dell’uomo sono apparentemente a sé stanti, ma nella mente degli individui queste espressioni sono spesso inevitabilmente connesse a qualche livello. I diversi modi di organizzare la società, la vita quotidiana, le differenti cognizioni del mondo circostante rispondono di volta in volta a esigenze e processi storici particolari, che rimandano e danno vita a una rete di simboli, che non può essere percepita osservandone solo una maglia: lo studio dev’essere olistico e totalizzante, tenendone conto dei vari elementi di una società e di una cultura. Si parte quindi da un nodo della rete per comprenderne l’intera struttura, per poi tornare ad analizzare quel nodo alla luce del tutto: le cosiddette connessioni, dove ogni particolare si definisce connettendosi a significati globali. L’antropologo cerca regole nell’insieme di pratiche spesso strane e di difficile comprensione che un gruppo umano mette in atto; tenta di dare ordine alle azioni che ognuno di noi compie quotidianamente, in maniera spesso meccanica, conformista, senza sentire la necessità di ricondurle a un determinato concetto di cultura.
Una delle caratteristiche dell’antropologia culturale è: partire dall’osservazione particolare per giungere a una comprensione globale. Dal momento che ogni gruppo umano è un caso a sé stante, l’approccio relativista è uno dei pilastri fondamentali: atteggiamento secondo il quale ogni espressione culturale dev’essere spiegata all’interno del quadro simbolico della società che la produce. Quelle che chiamiamo culture sono degli insiemi di comportamenti e regole che vengono appresi vivendo in un determinato contesto sociale. Vengono utilizzati due termini per indicare due diverse prospettive di osservazione: etico (si intende il punto di vista dell’osservatore esterno, del ricercatore, che spesso è altro rispetto alla comunità in cui studia, è uno sguardo da fuori che tenta di ricondurre i fatti osservati a una logica di tipo scientifico) ed emico (è il punto di vista di chi fa parte della società in oggetto e che percepisce gli stessi fatti e agisce senza per forza darsi spiegazioni, ma per abitudine, conformismo e routine).
A problemi comuni gli individui danno risposte differenti perché "i problemi, essendo esistenziali, sono universali, le loro soluzioni, essendo umane, sono diverse". Ogni forma di espressione culturale scaturisce dall’elaborazione prodotta da un cervello biologicamente e strutturalmente identico a quello di ogni altro essere umano, ma ciò non impedisce che ciascuna delle popolazioni del pianeta sviluppi soluzioni diverse a situazioni condizionate da eventi esterni oppure di adottare scelte arbitrarie e convenzionali. In questo modo la cultura diventa una sorta di magazzino del sapere accumulato da un gruppo, anche se ci sono delle forme di trasversalità che attraversano molte culture, ma ciò non impedisce che due sistemi, anche se incommensurabili, non possano essere comunque comparati tra di loro.
L’atteggiamento relativista si oppone all’etnocentrismo, che esprimerebbe una "concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa e tutti gli altri sono considerati e valutati in rapporto a esso". Il risultato è quello di giudicare sbagliato tutto ciò che non risponde ai propri canoni: anche se non approvato dagli antropologi, è un tratto che accomuna la maggior parte dei gruppi umani del presente e del passato. Ogni società tende a pensarsi fondamentalmente buona e circondata da gruppi e persone tendenzialmente non buoni; tutto ciò che non è consueto viene visto come non naturale.

Tratto da IL PRIMO LIBRO DI ANTROPOLOGIA di Elisabetta Pintus
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