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Delluc ed Epstein: le divergenze nella concezione del cinema





Le differenze citate qui sono l’effetto di quella sostanziale divergenza nella concezione del cinema; per meglio comprendere è però opportuno soffermarsi sulla questione del valore di conoscenza nel cinema. In entrambi i teorici esiste un sostrato passionale che si potrebbe definire “amore per il cinema”; tuttavia la nascita di questo amore nasconde qualcosa di leggermente diverso: ciò che accade è che il cinema stesso venga concepito secondo i modi di sentimento. Se il cinema è conoscenza attraverso il sentimento, esso è paragonabile all’amore che del sentimento rappresenta la forma più alta: ciò è vero per Epstein, ma anche, in maniera meno esplicita per Delluc; l’analogia tra l’amore e il cinema si fonda su due qualità che entrambi sembrano possedere: la capacità sinestetica e l’immediatezza. Anche se il cinema, arte monosenso, è la vista ad essere sollecitata, attraverso essa è in realtà, come nell’amore, l’intera sfera del sensibile ad essere mobilitata; il cinema, come l’amore non è mediato attraverso il linguaggio, attinge ad una conoscenza diretta, sensibile dell’oggetto, assai più precisa in quanto scevra dalle ambiguità della parola. È proprio rispetto all’immediatezza che emergono due diverse concezioni del cinema.
Per Delluc il cinema ha la capacità di articolare una visione non mediata dalle categorie culturali, dagli usi e dalle abitudini che viziano la nostra percezione normale. Ciò che lo colpisce è l’apparizione di un mondo nuovo, aurorale, mai visto prima. Le cose al cinema sembrano viste per la prima volta, rinascono alla loro bellezza originaria. E se il primo piano ha valore di sineddoche, il cinema nella sua interezza deve essere la sineddoche di questo mondo naturale finalmente riconquistato.
In Epstein l’immediatezza è innanzitutto rapidità, e dunque implica il movimento: si tratta di una concezione improntata ad un’estetica modernista, in cui è ben evidente l’influenza futurista. Epstein crea un legame logico tra due convenzioni abbastanza diffuse negli anni venti – e in sé non particolarmente originali –: l’idea che il cinema realizzi una sorta di conoscenza essenzialmente prelinguistica e l’idea che il cinema sia innanzitutto movimento. La verità ultima del cinema consiste nel mostrare la continuità variabile delle forme, l’aspetto vitalista delle cose, il continuo trasformarsi del mondo, sotto la spinta del movimento proprio o di quello della m.d.p. S’impone allora una nuova definizione di fotogenia da parte di Epstein: “Qualche tempo fa dicevo: è fotogenico ogni aspetto il cui valore morale risulti accresciuto dalla riproduzione cinematografica. Dico adesso: solo gli aspetti mobili delle cose e delle anime, possono vedere il loro valore morale accresciuto dalla riproduzione cinematografica”.
La fotogenia è dunque variabile, discontinua, puntuale più che durativa. Dalla mobilità discende l’autonomia delle immagini: esse non preesistono al cinema, non sono un aspetto del mondo che solo il cinema è capace di rivelare, come accadeva in Delluc, sono piuttosto il risultato continuamente mutevole dell’incrociarsi di una doppia mobilità, del cinema e del mondo. In quanto oggetti, cose, le immagini sono create dal cinema, esistono per se stesse e sono tuttavia in grado di veicolare alcuni aspetti del mondo, quelli che Epstein definisce genericamente “sentimenti”; nascono così delle immagini che sono “sentimenti-cose”.
Epstein è assai vicino ad alcune problematiche della riflessione filosofica contemporanea: l’immagine non è più una percezione, quanto piuttosto un percetto, in quanto oggetto indipendente dal soggetto percipiente; il sentimento-cosa è un affetto piuttosto che un’affezione o un sentimento, in quanto è reso indipendente da chi lo prova, si dà nella sua forma di oggetto visibile.

Tratto da SEMIOTICA DEI MEDIA di Nicola Giuseppe Scelsi
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