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Etica della comunicazione

Comunicazione ed etica, oggi


Oggi più che mai la comunicazione è un tema di grande attualità. I suoi processi, infatti, incidono profondamente sulla nostra vita e la modificano in modo radicale: per rendersene conto basta accendere la televisione o aprire un giornale. Per questo motivo l’agire comunicativo richiede di essere definito, regolato, orientato. “Comunicare bene” interessa non solo gli addetti ai lavori (giornalisti, comunicatori), ma chiunque nella sua vita sperimenti le difficoltà del comunicare. Tutti, in vari modi, comunicano sempre, devono interrogarsi sulle condizioni, sugli scopi, sulle conseguenze dell’agire comunicativo.
Oggi la disattenzione per regole e principi sembra per lo più dominare l’ambito comunicativo, all’interno di un contesto generale che nonostante il riproporsi di vari codici di autoregolamentazione registra:
  • uno scarso rispetto per l’ascoltatore (considerato poco più che un bersaglio da colpire);
  • un’insufficiente considerazione per le specifiche esigenze delle differenti fasce di utenti (tutti ritenuti “carne” da pubblicità);
  • un vero e proprio abuso (spesso in un senso strumentalmente ideologico) dei mezzi d’informazione. 

Emerge così come reazione un bisogno di etica che si esprime in considerazioni di tono apocalittico o nella proposta di sempre nuovi codici di regolamentazione. 
Tale mancanza di sensibilità morale nell’attuale panorama dei media è ciò che suscita l’esigenza di un’etica della comunicazione, ma allo stesso tempo rischia di supportare un moralismo spicciolo. Sorge dunque la necessità di mostrare non solo che nell’interazione comunicativa è necessario far riferimento a principi di carattere morale, ma soprattutto che bisogna regolarsi secondo principi di un certo tipo, i quali risultano validi in generale. Proprio questo è il compito dell’etica della comunicazione. 
Particolari principi di comportamento, accolti implicitamente in moti processi comunicativi, come quelli ad esempio volti al conseguimento dell’utile di una parte o di efficienza a ogni costo del sistema, vanno esplicitati e discussi, per dimostrare che essi non sono affatto preferibili se si vogliono regolamentare i processi comunicativi. Tali principi non sono in realtà scelti da nessuno, ma piuttosto vengono subiti, sia dagli operatori che dagli utenti. Essi cioè appartengono a una logica che è caratterizzata dall’intreccio di un certo paradigma di comunicazione (quello che concepisce la comunicazione semplicemente come la trasmissione di un messaggio da un emittente a un ricevente) con uno specifico modello economico e di consumo (quello che contraddistingue in generale l’Occidente capitalistico). Ne risulta l’autonomizzarsi dei processi comunicativi rispetto a quegli stessi soggetti che li dovrebbero produrre e che ne risulterebbero, dunque, responsabili. Un processo analogo contraddistingue la cosiddetta globalizzazione: compito dell’etica contemporanea è quello di ridefinire il concetto di responsabilità di fronte a tali fenomeni e stabilire anzitutto i termini entro i quali un’azione può ancora essere detta “libera”. La condizione in cui si trovano ad agire gli operatori della comunicazione e fruitori sembra dunque essere una condizione di irresponsabilità, per cui anche facendo comunicazione si rischia di non essere più soggetti morali. 
Una definizione operativa oggi di etica della comunicazione è quella per cui essa  si configura come una disciplina che rientra nell’ambito delle etiche applicate (al pari ad esempio della bioetica, dell’etica ambientale, dell’etica dei diritti, dell’etica del lavoro, dell’etica dell’economia). Essa ha avuto un importante e articolato sviluppo soprattutto nell’ambito dell’area culturale anglo-americana. Quanto al continente europeo, l’etica della comunicazione si è diffusa in Germania e in Francia più precocemente di quanto non sia
avvenuto in Italia. In ciascuno dei vari contesti linguistici e culturali di riferimento, comunque, il rapporto fra etica e comunicazione è stato inteso in modi diversi, a prescindere dalle strategie morali effettivamente adottate. 

Si possono distinguere ad esempio:
  1. un approccio deontologico all’ambito comunicativo;
  2. un’etica della comunicazione propriamente detta;
  3. un’etica nella comunicazione, concepita essa stessa come comunicazione (ricavabile cioè dalle condizioni che sono proprie dei processi comunicativi considerati in quanto tali).

La preoccupazione deontologica emerge dalla necessità di regolamentare, in base a principi giuridici e morali ben definiti, il comportamento degli operatori della comunicazione e le condizioni in cui si possono venire a trovare, di volta in volta, i fruitori dei vari media, e che ha portato  alla redazione di codici ben precisi, chiamati a definire il quadro del lecito e dell’illecito in ambito comunicativo. Alcuni di questi codici sono stati elaborati, con qualche ritardo, anche in Italia (ad esempio la Carta dei doveri del giornalista, promulgata dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione  Nazionale della Stampa Italiana l’8 luglio 1993, e la Carta dell’informazione e della programmazione a garanzia degli utenti e degli operatori del servizio pubblico, promulgata dalla RAI nel marzo 1995 e poi rielaborata e riproposta nei primi mesi del 1996), altri sono in corso di ripensamento e di elaborazione. In ogni caso, tuttavia questi codici sono in realtà poco conosciuti e ancora meno osservati, anche perché le sanzioni nei confronti di coloro che li trasgrediscono sono risultate finora inadeguate o del tutto inesistenti. Al di là della mera codificazione emerge quindi un’esigenza di tipo diverso: un’istanza più etica, che richiede un orientamento nelle scelte che i singoli operatori della comunicazione devono compiere e che mira a coinvolgerli in un comportamento guidato da valori assunti in modo consapevole. Giacché l’errore di fondo della prospettiva deontologica è quello di pretendere di gestire problemi morali attraverso uno strumento giuridico: mediante, cioè, la semplice elaborazione di un codice.
Si delinea dunque la necessità di elaborare un’etica della comunicazione in senso proprio: un’etica cioè che sia in grado di stabilire ciò che è giusto, valido, buono nelle varie pratiche comunicative e di indicare in che modo perseguirlo. Il discorso si sposta insomma da un’impostazione attenta alle questioni giuridiche e normative a una dimensione nella quale l’interesse risulta soprattutto di tipo filosofico. Bisogna però chiarire quale sia la concezione teorica più adeguata, quella cioè in grado di orientare davvero, e nel modo migliore, il comportamento dell’individuo. Un tale problema rinvia  alle tematiche affrontate nell’ambito dell’etica generale. Si ripropone dunque la necessità di fondare l’etica della comunicazione sopra una dottrina dei principi morali più ampia e comprensiva.
Come risulta dalla trattazione delle problematiche morali che è propria della tradizione ebraico-cristiana, il fatto di conoscere la validità di un principio di comportamento non implica l’effettiva adesione ad esso. Vi è cioè un distacco tra sapere e volere, che non può più essere risolto dal semplice richiamo a un’obbligatorietà senza condizioni, sancita da un punto di vista religioso. Emerge dunque la domanda relativa al perché si debbano seguire dei principi morali di un certo tipo, sia in generale che nell’ambito specifico dell’interazione comunicativa: è la questione del coinvolgimento morale e del senso che devono avere per ogni individuo i principi in base ai quali agisce.
La risposta a una tale domanda può venire, almeno inizialmente, proprio da un approfondimento dei caratteri di fondo che sono propri del linguaggio e della comunicazione. Apel  ha sostenuto che vi è una normatività morale insita nello stesso uso del linguaggio, nel fatto cioè che tutti come parlanti facciamo parte della comunità illimitata della comunicazione e mettiamo in opera i principi che sono insiti in essa. Partendo quindi da un particolare carattere del linguaggio possono essere fatte emergere le condizioni di un’etica universalmente valida, che rimanda alla responsabilità propria di ciascun parlante e la pone costantemente in gioco. 
Si va così verso un’etica intesa essa stessa come comunicazione, nella comunicazione.

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