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Il cinema come lingua - Epstein -


Un secondo punto. È noto come, soprattutto in Epstein, si trovi correttamente l’affermazione che il cinema è una lingua, “e come tutte le lingue è animista. Più un linguaggio è primitivo, più questa tendenza animista è marcata. È inutile sottolineare fino a che punto è ancora primitivo nei suoi termini e nelle sue idee: non è dunque il caso di stupirsi se esso riesce ad attribuire una vita così intensa anche agli oggetti più morti che si trova a rappresentare. ”.
Si vede dunque come la questione della lingua sia collegata a quella della reinvenzione del reale: è la forza animista della lingua cinema che permette di dare vita al mondo, di trasfigurarlo, di creare quell’impressione di nuovo, di mai visto prima che a Delluc sembra la qualità più straordinaria della nuova arte. Epstein precisa più avanti che la grammatica del cinema è una grammatica sua propria.
Questa questione della lingua è di tutto rilievo per affrontare il problema dell’autore: difatti, perché ci sia autore, bisogna che questi possa usufruire di un linguaggio, o quantomeno di un mezzo espressivo. Eppure, l’affermazione di Epstein sulla natura linguistica del cinema, per quanto possa sembrare paradossale, non va in questa direzione; la lingua del cinema di cui parla Epstein sembra cosa ben diversa dal linguaggio cinematografico a cui comunemente facciamo riferimento e che trova la sua forma analitica per esempio in Metz. Per Epstein la lingua cinema non è affatto un insieme di codici che veicolano il senso, essa è il senso stesso, ed è un soggetto terzo rispetto all’interlocuzione; il cinema dunque, più che un sistema significante, è un sistema significativo. Dire che la grammatica del cinema è una grammatica sua propria, è piuttosto la rivendicazione di una sorta di autonomia del cinema, il quale parla per sé, ha una sua propria intelligenza del mondo, non può essere usato come subordinato a un oggetto autore, in quanto l’obiettivo è se stesso.
Per cercare di chiarire la differenza tra il linguaggio, inteso nel senso comune, e la lingua cinema, possono servire le parole di Epstein: “Le parole slittano come saponette bagnate intorno a quello che si vorrebbe dire. Una sera un amico volendomi spiegare tutto troppo esattamente, di colpo sollevò due volte le braccia in aria e non disse più niente. Gli ho creduto, come altri sulla parola, io, su quel mutismo stanco. Sulla linea dell’interlocuzione le interferenze dei sentimenti inattesi ci interrompono. Resta tutto da dire, e si rinuncia stremati. Allora lo schermo illumina il suo silenzioso cielo altoparlante. Sicurezza di questo linguaggio che un occhio quadrato scorre crepitando. La tela capta un furto d’ automobili. Sopra le teste, dall’arco dello schermo, leggera come una nube di fumo, passa Babilonia ricostruita in scintille.”.
Le parole di Epstein sembra confermino il discorso già fatto: da un lato questa lingua cinema che è innanzitutto se stessa mal si presta ad essere piegata alle necessità espressive di un autore, essa rimane fondamentalmente altra, e anzi trova il suo spazio proprio nel momento in cui il soggetto vacilla, perde la propria capacità di espressione, sovrastato dai sentimenti; dall’altro, al cinema non esiste presa di parola, ogni atto linguistico di questa lingua particolare ha come risultato necessario il cinema e il mutismo. Fare cinema è in qualche modo una deroga alla propria capacità di parlare. Il testo di Epstein è dominato da questo senso di comunione e annullamento nel cinema: “Camminavo nel silenzio di un pensiero comune al punto che io lo sentivo davanti a noi come una undicesima persona, molto grande. Non so fino a che punto riesco a far capire che, a proposito di questo personaggio, sto parlando di cinema.”.
Tutto questo può sembrare più o meno misticheggiante, e forse lo è; però c’è da sottolineare quanto si è vicini ad un territorio che la semiotica comincia ad esplorare, basta vedere il Greimas dell’Imperfezione quando caratterizza l’estesi con parole che potrebbero essere quelle di Epstein: “Ad un tratto appare qualcosa, non sappiamo cos’è: né bello, né buono, né vero, ma tutte queste cose insieme. E neppure questo: accade un’altra cosa. Essa fa nascere la speranza di una vita vera, di una fusione totale del soggetto e dell’oggetto. Insieme al sapore di eternità ci lascia un fondo di imperfezione.”.
È quest’idea di imperfezione che pare sia oscurata dal ragionamento per autore e che invece viene continuamente riaffermata, nella forma di un vitalismo modernista, dai teorici della fotogenia.


Tratto da SEMIOTICA DEI MEDIA di Nicola Giuseppe Scelsi
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