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L’etnologo e la condizione umana


L’etnologia o l’antropologia elegge l’uomo come oggetto di studio ma differisce dalle altre scienze umane in quanto aspira ad esaminarlo nelle sue manifestazioni più varie.
I popoli studiati dagli etnologi concedono la dignità di una condizione umana esclusivamente ai loro membri e confondono gli altri con l’animalità; ciò è stato osservato in tutte le popolazioni.
Dai suoi inizi al principio del XIX secolo fino alla prima metà del XX secolo il pensiero etnologico ha cercato di conciliare la varietà dell’uomo con l’incompatibilità delle sue manifestazioni particolari. A tale scopo è stato necessario che il concetto di civiltà cedesse il posto a quello di cultura che denotava i singoli stili di vita individuabili sotto la forma di produzioni concrete piuttosto che valori.
L’etnologia cerca soprattutto nel concetto di cultura un criterio che permetta di riconoscere e definire la condizione umana; il concetto di cultura pone due problemi quelli del suo impiego al singolare o al plurale. Se la cultura al singolare è l’attributo specifico della condizione umana, quali sono i caratteri universali che include? Se invece si manifesta sotto varie forme, queste sono equivalenti o sono passibili di giudizi di valore?
Nel 1917 l’etnologo americano Kroeber cercò di rispondere al primo quesito affermando che la cultura è un ordine specifico distinto dalla vita  e deve essere concepita come una concrezione di tecniche, idee e credenze generata dagli individui, ma più duratura di essi.
Alla seconda domanda, l’etnologia risponde con la teoria del relativismo culturale ossia non si nega il progresso né la possibilità di ordinare gerarchicamente le culture sotto alcuni criteri, ma questa possibilità ha tre limitazioni: 1. il progresso c’è ma si manifesta in settori particolari e in maniera discontinua con possibilità di stagnazioni e regressioni; 2. l’etnologia non sa ordinare secondo una scala comune le società preindustriali; 3. l’etnologia non sa formulare un giudizio intellettuale o morale sui valori delle singole credenze.
Per quasi mezzo secolo il relativismo culturale e la separazione pregiudiziale che implica tra natura e cultura hanno avuto valore di dogma che si è trovato minacciato dalle semplificazioni della scuola funzionale che con Malinowski sottovaluta la differenza tra culture. Gli etnologi, spinti dal rispetto nei confronti dei popoli, non formulavo giudizi di valore sulle culture a esaltando quella occidentale creando dubbi presso gli stessi popoli che si volevano tutelare.
Il concetto di cultura e di distinzione tra natura e cultura viene attaccato da altri ambiti e dopo alcune scoperte come il caso dei ritrovamenti in Africa dei resti di ominidi capaci di fabbricare utensili prima dell’homo sapiens, la scoperta che gli scimpanzé viventi allo stato selvaggio fabbricano e usano utensili primari.
Oggi si è ufficialmente costituita negli Stati Uniti la sociobiologia che rifiuta il concetto di condizione umana; questa svolta è inserita nel quadro del neo-darwinismo ma non sarebbe stata possibile senza la teoria di Hamilton che cercò di risolvere una difficoltà delle ipotesi darwiniane ovvero quando un predatore si avvicina la preda lancia un grido per avvisare i suoi congeneri; questo comportamento è dato dal fatto che la selezione naturale opera a livello dell’individuo e non della specie, inoltre l’interesse biologico di un individuo è quello di assicurare la perpetuazione del suo patrimonio genetico; un individuo che si sacrifica per la salvezza dei suoi parenti assicura la sopravvivenza del suo patrimonio genetico.
Gli argomenti della sociobiologia però sono semplicistici e contraddittori infatti da una parte si afferma che tutte le attività dello spirito sono determinate dall’adattamento inclusivo, dall’altra che possiamo modificare il destino delle specie scegliendo tra gli orientamenti istintivi ereditati dal nostro passato biologico, però o queste scelte sono dettate dall’adattamento inclusivo e quindi non scegliamo o la possibilità di scelta è reale e non è lecito affermare che il destino umano è retto dalla sola eredità genetica.
Solo i progressi della neurologia oggi ci danno al speranza di risolvere antichissimi problemi. 
I genetisti oggi sanno bene che ogni cultura esercita sui suoi membri una pressione selettiva più energica e con effetti più pronti della lenta evoluzione biologica infatti non è il gene che conferisce resistenza alle temperature polari ad aver donato agli Inuit la loro cultura, ma al contrario questa cultura ha avvantaggiato i più resistenti al freddo.
Le forme culturali che volta a volta gli uomini adottano determinano il ritmo e l’orientamento della loro evoluzione biologica.
La cultura non è né naturale né artificiale, non si può ricondurla né alla genetica né alla ragione perché consiste di regole di comportamento che non sono state inventate, le cui funzioni di solito non vengono comprese da coloro che vi obbediscono ma sono in parte residui di tradizioni acquisite e in parte regole accettate o modificate consapevolmente in vista di uno scopo bene definito.
Ciò che caratterizza l’uomo sarebbe dunque la presenza di singoli elementi, la ripresa sintetica del loro insieme sotto forma di una totalità organizzata. Ma definire la cultura attraverso proprietà formali non basta, esistono “universali” della cultura? Vico ne distingueva tre: religione, matrimonio e sepoltura dei morti; questi sono tratti universali della condizione umana ma non insegnano molto infatti tutti i popoli del mondo possiedono regole di matrimonio e credenze religiose, ma quello che occorre capire è perché queste credenze e queste regole sono diverse da una società all’altra.
Il problema della cultura quale si pone oggi agli etnologi consiste nello scoprire leggi d’ordine sottostanti alla diversità; ad esempio le lingue del mondo differiscono tra loro ma obbediscono tutte a regolarità universali.

Tratto da RAZZA E STORIA. RAZZA E CULTURA di Anna Carla Russo
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