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L’incoercibilità dell’obbligo di reintegrazione: la prosecuzione del vinculum iuris


L’art. 18 St. lav. affida l’esecuzione della sentenza di reintegrazione allo stesso datore di lavoro, il quale è tenuto a ripristinare il lavoro rivolgendo al prestatore un apposito invito a riprendere il servizio.
Con tale invito il datore adempie all’obbligo di reintegrazione, mentre in sua assenza verserà in situazione di mora credendi, con la conseguenza che il lavoratore, nonostante l’inattività, avrà diritto alle retribuzioni.
Di contro, a fronte di tale invito il lavoratore dovrà, a sua volta, ottemperare entro 30 giorni, decorsi i quali il rapporto si intenderà risolto per dimissioni.
Come si desume da questa disciplina, la reintegrazione si configura quale sanzione del licenziamento illegittimo e nello stesso tempo come un obbligo di fare che, in quanto tale, è infungibile e incoercibile.
In effetti, la riammissione in servizio e l’assegnazione di compiti e mansioni ineriscono all’esercizio dei poteri organizzativi attribuiti all’imprenditore in via esclusiva.
Pertanto, l’esercizio di tali poteri, pur doveroso verso il lavoratore che abbia ottenuto la sentenza di condanna alla reintegrazione, non può essere assicurato con lo strumento esecutivo.
Il legislatore si è perciò mantenuto nell’ambito di una tutela risarcitoria, utilizzando una forma di coazione indiretta: si è così previsto che, quando non sia possibile per volontà del datore di lavoro l’esecuzione della prestazione e quindi la prosecuzione materiale del rapporto, ne sia garantita la prosecuzione come vinculum iuris.
In tale prospettiva, il datore di lavoro è tenuto alla reitegrazione ed al pagamento di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto e comunque non inferiore a 5 mensilità a titolo di risarcimento del danno per il periodo che va dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione.
Così congegnata, l’indennità ha natura plurifunzionale: per il periodo intercorso dal licenziamento alla sentenza, risarcitoria del danno subito dal lavoratore; per il periodo successivo, di pena privata o comminatoria dell’inadempimento dell’obbligazione reintegratoria.
In ogni caso, la legge impone, in aggiunta all’indennità, anche il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali relativi al periodo intercorrente tra il licenziamento e la reintegrazione.
Il meccanismo previsto dall’art. 18 St. lav. potrebbe indurre a ritenere che la commisurazione dell’indennità alla retribuzione sia stata utilizzata dal legislatore secondo un modello rigido, derogatorio rispetto alla regola generale (in base alla quale il risarcimento viene commisurato all’effettiva perdita patrimoniale del creditore), di modo che non sarebbe invocabile il principio della detraibilità dell’aliunde perceptum o percipiendum (sovrappiù percepito).
Sul punto, tuttavia, si segnala l’opposto orientamento della Corte di Cassazione, la quale ritiene possibile la detrazione del sovrappiù percepito dal lavoratore e, contemporaneamente, ammette la prova dell’eventuale maggior danno subito dal lavoratore.
L’art. 18 St. lav. prevede anche un’ulteriore indennità risarcitoria sostitutiva della reintegrazione: il lavoratore reintegrato ha diritto di optare, nel termine di 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza di reintegrazione, per la risoluzione del rapporto obbligando il datore, in alternativa alla reintegrazione, al versamento di un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione.
In questo modo l’obbligazione di fare del datore, ripristinatoria della collaborazione, viene trasformata in obbligazione di dare.

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