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L'art. 1366 c.c.: interpretazione secondo buona fede


La configurazione della buona fede quale regola ermeneutica cui ricorrere nell’ipotesi in cui il testo rimanga oscuro nonostante l’applicazione delle regole di interpretazione oggettiva, deve essere messa in discussione.
Ciò trova conferma nella collocazione centrale della norma tra i due momenti interpretativi di tipo oggettivo e soggettivo, che ne fa emergere il valore di “criterio cogente e quindi inderogabile, in ciascun momento dell’interpretazione”.
La norma pone da sempre dubbi e interrogativi soprattutto nell’identificare quali soluzioni siano conformi alla buona fede e in che modo tale criterio aggiunga un ulteriore significato a quanto già previsto negli artt. 1362 e 1367 c.c.:
- le definizioni più risalenti riferivano l’interpretazione secondo buona fede a quella che si svolge in modo conforme “all’intenzione delle parti e allo scopo che esse si sono proposte contrattando”; ma la fedeltà alla volontà comune è già richiesta dall’art. 1362 c.c.;
- abbandonata l’equivalenza tra buona fede e volontà si opta per un significato più oggettivo; da qui l’idea che la buona fede espliciti il rilievo di una “reciproca lealtà di condotta tra le parti”, ma la definizione non aggiunge niente al significato dell’art. 1366 c.c.;
- molto diffusa è l’idea di un collegamento fra la norma e il principio di affidamento: “data una dichiarazione che la controparte aveva il diritto di intendere in un dato senso, questo senso sarà rilevante per il diritto e il dichiarante non potrebbe invocare un significato diverso”; ma ciò non è convincente perché “il contratto non è l’isolata dichiarazione di una persona ad un’altra ma un ceppo di dichiarazioni reciproche: non c’è un dichiarante e un destinatario, i due contraenti partecipano delle due qualità”;
- la teoria dell’affidamento si può arricchire con un ulteriore indicazione: si può far prevalere il significato che entrambe le parti dovevano dare al testo, ma ciò riflette o “un codice comune alle parti o un significato oggettivo” che si ricava già all’art. 1362 c.c.
Si comprende perciò come da qualche tempo si formulino letture più impegnative dell’art. 1366 c.c.:
- si ipotizza un suo ruolo nel caso di effetti dannosi imprevisti e perciò ingiusti, aprendo la via al tema della revisione o ripetizione del contratto;
- si può utilizzare per “rettificare dettagli di un negozio, cancellandone quanto inserito grazie alla uso del disagio o della momentanea mancanza di discernimento della controparte”;
- la Corte di Cassazione di recente precisa che “la volontà delle parti non può essere integrata con elementi ad essa estranei e ciò anche quando sia invocata la buona fede, la quale deve intendersi come fattore di integrazione del contratto non sul piano interpretativo ma su quello della determinazione delle rispettive obbligazioni delle parti.
In conclusione, si può dire che l’art. 1366 c.c. indica all’interprete la necessità di fissare il contenuto del contratto e di ricercare il senso più rispondente ad una attività corretta dei contraenti.

Tratto da DISCIPLINA GIURIDICA DEI CONTRATTI di Stefano Civitelli
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