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L’art. 20 cost.: il principio di non discriminazione


“Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”
Si ricollega indubbiamente al principio di uguaglianza e alla libertà religiosa.
La disposizione in esame accorpa in un’unica categoria, a qualunque confessione appartengano, gli enti ecclesiastici e quelli con fine di religione o di culto ed impone al legislatore di riservare a detti enti un trattamento almeno uguale a quello praticato nei confronti degli enti di diversa natura, vietando di assumere l’ecclesiasticità e il fine di religione o di culto quali elementi di discriminazione per un trattamento deteriore.
Al riguardo occorre tuttavia effettuare una precisazione: la creazione di norme speciali per gli enti ecclesiastici non è impedita dall’art. 20 cost.; l’unico limite previsto, come già sottolineato, è costituito dal fatto che la specialità non si traduca in disposizioni deteriori rispetto a quelle che sono le norme valevoli per le persone giuridiche in genere, mentre è pienamente ammissibile che detta specialità conduca a disposizioni favoritive.
Sotto questo profilo si è ritenuto che il d.lgs. 460/97, in tema di organizzazioni non lucrative di utilità sociale, non potesse non dirigersi anche agli enti e alle associazioni di carattere ecclesiastico, proprio per non creare discriminazioni in pejus.
L’applicazione delle garanzie offerte dall’art. 20 cost. presuppone che sia qualificabile come afferente alla sfera del religioso ogni singola formazione considerata, prescindendosi da ogni riferimento ai criteri dell’importanza, del radicamento nella realtà sociale e della complessità dell’organizzazione della formazione stessa.

Tratto da DIRITTO ECCLESIASTICO di Stefano Civitelli
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