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La dequalificazione professionale

Abbiamo visto come per “mansioni” s’intenda l’insieme dei compiti che il lavoratore è chiamato a svolgere, oggetto dell’obbligazione contrattuale del rapporto di lavoro. Il contratto di lavoro, tuttavia, è l’unico contratto in cui l’oggetto possa essere modificato unilateralmente da una parte, il datore di lavoro, al contrario della generalità di contratti in cui occorre il mutuo consenso delle parti. Ciò è previsto dall’art.2103 c.c., che nel suo testo originario prevedeva non solo la possibilità del datore di modificare le mansioni, nell’interesse dell’impresa, per cui il lavoratore era stato assunto, ma anche l’eventualità che fossero le parti di comune accordo a stabilire una modifica delle mansioni. 
L’art.2103 c.c. è stato novellato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori del 1970, il quale non solo ha eliminato la differenza tra mutamento unilaterale e mutamento consensuale, ma, pur riconoscendo il iusvariandi dell’imprenditore, ha stabilito che sia possibile una variazione di mansioni solo orizzontale o verticale verso l’alto, essendo impossibile una dequalificazione del la lavoratore. La mobilità verso il basso può essere attuata solo nei casi tassativamente previsti, ossia in caso di esigenze straordinarie sopravvenute, nel caso di lavoratrici madri in quanto si è voluto assicurare l’esercizio di mansioni non pregiudizievoli alla salute delle stesse o dei feti, nel caso di sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle mansioni, o nel caso in cui un accordo sindacale, in seguito ad una procedura di licenziamento, prevede il riassorbimento di lavoratori esuberanti. Tranne che in quest’ultimo caso, si mantiene sempre la retribuzione precedente alla variazione verso il basso della mansione. L’art.2103 c.c. precisa che “ogni patto contrario è nullo”. In caso di dequalificazione ingiustificata, tra l’altro, il lavoratore avrà diritto al risarcimento del danno tanto patrimoniale, quanto non patrimoniale. 

Tratto da DIRITTO DEL LAVORO di Alessandra Infante
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