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Le misurazioni dell’etnomusicologia



Tali tecniche però restano approssimative perché è comunque l’orecchio a decidere quando la nota da misurare e quella che serve da campione sono identiche tra loro; inoltre le distanze tra campione e campione sono in genere così grandi sullo strumento di misurazione che 8 volte su 10 la nota si trova nel mezzo di due campioni e la valutazione del punto di misura resta comunque all’individuo. I metodi visivi sono in definitiva i più esatti, particolarmente quelli che si basano sull’elettronica moderna, tra gli apparecchi di cui si fa più uso ricordiamo gli oscilloscopi, gli stroboscopi e il calcolatore elettronico.
Un orecchio adeguatamente esercitato è indispensabile nella seconda fase di studio dell’etnomusicologo, quando cioè quest’ultimo studia il materiale raccolto sul campo per renderlo accessibile a coloro che non hanno mai udito l’originale, trascrivendo in notazione occidentale. In questa situazione è di grande importanza avere un grande controllo in quanto le trascrizioni sono soggettive, forse fin troppo per essere accettate acriticamente. Ma anche queste apparecchiature pongono grosse questioni, per quanto siano perfette servono a un unico scopo: la misurazione fedele dei costituenti della melodia che il fonografo riproduce. E volendo anche la valutazione più precisa della tonalità e del metro non ha che un valore limitato. Il compito essenziale del ricercatore è l’organizzazione, l’analisi e l’interpretazione del materiale grezzo fornito dal registratore; esso richiede un’opera di raggruppamento, di suddivisione in frasi e punteggiatura, è il compito lontano dall’infallibilità.

Per quanto riguarda invece il problema di come esprimere gradi differenti da quelli del nostro sistema ben temperato, ci si imbatte in numeri, frazioni, divisioni e logaritmi. Le note che udiamo differiscono tra di loro unicamente per una qualità fattuale, fisica: la frequenza delle vibrazioni o, in altre parole, la somma delle oscillazioni che compie la corda di uno strumento. I nostri diapason quando rendono un LA normale vibrano 440 volte in avanti e 4440 volte indietro, questa frequenza è in ogni caso la misura unica e imprescindibile di una singola nota; è più complicato descrivere il grado, cioè la distanza o intervallo, fra due note. Per esprimere tale intervallo in cifre dobbiamo fare il rapporto fra le due frequenze (quando una nota vibra 440 volte avanti e un’altra 3330, il loro intervallo è 440:430 o 4:3) ma non sempre i rapporti sono così semplici, in quanto vi sono casi in cui si presentano rapporti non fattibili. Risulta dunque necessario trasformare la frequenza in un logaritmo, tale trasformazione implica la trasformazione dei rapporti scomodi in sottrazioni esprimibile in un numero semplice; possiamo così esprimere distanze simili mediante numeri identici senza considerare intonazioni e frequenze, tale numero è il logaritmo dell’intervallo in questione. Volendo raffigurare le distanze in modo che i numeri restituiscano un’immagine chiara della misura che si sta ricercando dobbiamo servirci del sistema logaritmico dei Savart, un savart equivale a 4 cents e il semitono è espresso da 25 e 100 cents. Secondo quanto sostiene Ellis un’ottava contiene, secondo il nostro sistema, 12 semitoni uguali ciascuno dei quali equivale alla radice dodicesima di 2, ogni semitono nel sistema di Ellis è diviso in 100 cents e tutta l’ottava di conseguenza è divisa in 1200 cents. (2 rappresenta il rapporto di frequenza delle possibili sfumature di altezza contenute in un’ottava).
Ecco dunque cosa fare per calcolare i cents che compongono una distanza o intervallo:
       • Ricerchiamo le frequenze delle due note seguendo uno dei due metodi (visivo o acustico).*
       • Ricerchiamo i due logaritmi e la loro differenza.
       • Trasformiamo il risultato del logaritmo in cents con l’aiuto del quadro tabella standard fissato.  
Tale trasformazione può essere eseguita dal regolo musicale elaborato da Reiner costruito come un regolo normale nel quale due scale i dodici centimetri l’una si spostano l’una lungo l’altra. La scala di sinistra rappresenta l’ottava ben temperata do-do da 264 cicli a 528 cicli, la scala è divisa in 10 settori di 10 cicli l’uno, e 4 linee ogni due cicli.
Andando avanti le distanze tra due linee divengono progressivamente più brevi poiché le differenze tra i due numeri di frequenza di ogni intervallo trasposto in alto aumentano in progressione. La scala di destra raffigura l’ottava fissa di 1200 cents, misura anche questa 12 cm, ogni cm comprende 100 cents di un semitono e 10 gradi di 10 cents.
Per trasformare una distanza in cents il regolo deve spostare la scala dei cents fin quando la sua linea di base si ferma esattamente di fronte al numero di frequenza della nota più alta Nonostante la raffinatezza delle nostre tecniche siamo ancora ben lontani dal trascrivere fedelmente la musica orientale, che non ha nulla a che vedere con le composizioni fatta con carta e penna, il momento della produzione è fuso con quello della riproduzione in un’unità meravigliosa, possiamo noi solo limitarci a rendere perlopiù una melodia priva però di vita. Leggendo la musica orientale trascritta sul pentagramma occidentale si ha un’idea erronea, spazi e linee ci inducono a pensare che le musiche orientali siano senza intonazione; il nostro sistema di scrittura non si presta a indicare le  nasalizzazioni, i falsetti, i vibrati, i glissati e tutte le sfumature che sono tratti caratteristici dei diversi idiomi musicali non occidentali.
Per ovviare a tale problema Abram e Von Hornbostel pubblicarono nel 1909 delle indicazioni per un adattamento dei simboli più noti quali le note, le code, le chiavi, le legature, i punti, alle esigenze specifiche della musica non occidentale. Abbiamo quindi la corona rovesciata noto simbolo di allungamento, usata per indicare quali sono i gradi relativi di importanza e di frequenza delle singole note. Nel 1949 a Ginevra presso gli Archives Internationels de Musique populair furono suggeriti simboli quali freccette orientate verso il basso o l’alto a seconda che si voglia abbassare meno la nota di un microtono; un arco convesso indica un leggero allungamento di una nota; uno concavo un leggero abbreviamento.

Detto ciò, resta il fatto che nessuna scrittura musicale sarà mai uno specchio fedele, possiamo però confortarci sapendo che i rapidi progressi della fonografia renderanno superflui molti dei nostri simboli grafici, restituendo la musica all’orecchio, al quale in fondo è destinata.
Ma finchè siamo costretti alla notazione di ciò che udiamo è necessario, dice Sachs, sottolineare 3 particolari:
1. Trascrivere un pezzo esattamente nella sua chiave originale genera confusione ed è inutile quando la sua tessitura richiede molti diesis e bemolle. Il canto indigeno non si rifà a un diapason, un altro cantante eseguirebbe probabilmente lo stesso brano in una chiave differente, perché dunque imporre il tono, del tutto casuale di una melodia primitiva, quando una semplice trasposizione di un semitono lo libera dalla zavorra di segni accidentali superflui?
2. Evitare tutte le indicazioni di chiave che si richiamano a quelle della musica occidentale. Create cioè per la tonalità nel senso armonico che ci è familiare.
3. Occorre fare attenzione a scrivere gli accidenti necessari nell’indicazione iniziale di chiave soltanto sul rigo o nello spazio che è loro destinato.
La musica non ha lasciato altre tracce che quelle che sopravvivono nella tradizione dei popoli attuali. Qui entrano in campo le altre discipline quali antropologia ed etnografia.

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