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Osservare e chiacchierare


Wittgenstein invitava ad osservare, più che a pensare: l’osservazione partecipante è il pilastro portante della ricerca antropologica. L’antropologo è colui che è di casa fuori casa, si piazza nelle comunità o nella località che intende studiare e inizia a osservare, intervistare, fotografare, e a scrivere: l’etnografia è la prima e indispensabile fase della ricerca, la descrizione di ciò che si osserva e si intuisce, una sorta di reportage approfondito.
La ricerca antropologica si fonda sul metodo induttivo: parte da elementi, dati, fatti particolari osservati, per poi arrivare a considerazioni di carattere generale. È chiaro quindi che la pratica di terreno è la cifra caratteristica dell’antropologia culturale: è grazie a una permanenza prolungata e a una convivenza stretta con la popolazione locale che si arriva a familiarizzare con una determinata cultura locale. Tendenzialmente l’antropologia privilegia il metodo qualitativo, anche perché il lavoro avveniva in contesti privi di scrittura, dove non era facile avere dati di tipo quantitativo se non raccogliendoli di prima mano.
In epoca recente il contesto è però cambiato: spostandosi su terreni più vicini o interni alla società occidentale, i ricercatori hanno dovuto fare i conti con gli archivi, le statistiche e varie fonti scritte; in alcuni casi i dati di archivio e le fonti orali possono divergere. Inoltre, i dati scritti non riportano quasi mai le motivazioni che portano ad avere quei determinati dati: per questo è molto importante chiacchierare, con interlocutori che vengono chiamati "informatori", persone che hanno voglia di stare ad ascoltare e di rispondere alle domande, compiendo in prima persona un lavoro di analisi e di interpretazione, cercando di capire le motivazioni di azioni diventate abitudini. In questo gioco delle parti non ci sono regole fisse, tanto meno un metodo, anche perché più che scegliere si viene scelti dalle persone più intraprendenti. L’antropologo dipende da chi è disposto a collaborare con lui.
Negli ultimi anni, da uno sguardo unidirezionale si è passato a una multifocalità: i punti di osservazione di moltiplicano, con attori localizzati anche in  luoghi diversi. L’antropologo non fa più l’osservatore seduto sul muro che divide la sua cultura da quella che sta osservando, ma si è spesso ritrovato a lavorare in una sorta di terra di nessuno, in un terreno che non è già, ma non è più ancora, ma è tra. L’altro è sempre altro, ma porta sempre qualcosa di nostro dentro, soprattutto in questi anni dove l’altro vive spesso accanto a noi, con conseguenti confini meno netti.

Tratto da IL PRIMO LIBRO DI ANTROPOLOGIA di Elisabetta Pintus
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