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L'indagine filosofica di Socrate: l'ignoranza, l'ironia e l'interrogatorio


Socrate nacque ad Atene nel 470 o 469 e si tenne lontano dalla vita politica attiva. Al contrario, la sua vocazione fu la filosofia: egli gettava il dubbio e l’inquietudine nell’animo di chi lo avvicinava.
Eppure quest’uomo, che dedicò alla filosofia l’esistenza e morì per essa, non ha scritto nulla. Socrate riteneva che la ricerca filosofica non poteva essere condotta dopo di lui da uno scritto. Per Socrate, che intende il filosofare come l’esame incessante di sé e degli altri, nessuno scritto può dirigere il filosofare. Lo scritto può comunicare una dottrina, non stimolare la ricerca.

Socrate è legato alla Sofistica da una rete di rapporti: 1) l’attenzione per l’uomo e il disinteresse per le indagini sul cosmo; 2) la tendenza a cercare nell’uomo e non fuori i criteri del pensiero; 3) la mentalità razionalistica, anticonformista che mette tutto in discussione e non accetta nulla se non attraverso il vaglio critico e la discussione; 4) l’inclinazione verso la dialettica e il paradosso.

Ciò che lo allontana dai Sofisti è invece l’amore per la verità e il rifiuto di ridurre la filosofia a retorica fine a se stessa, e il tentativo di andare oltre lo sterile relativismo conoscitivo e morale.

Sebbene in un primo periodo della sua vita Socrate seguì con interesse le ricerche degli ultimi naturalisti, egli poi, deluso, si convinse che alla mente umana sfuggono i perché ultimi delle cose e che ad essa non è dato conoscere con certezza l’Essere e i principi del mondo. Abbandonati gli studi cosmologici, Socrate cominciò a intendere la filosofia come un’indagine in cui l’uomo, facendosi problema, tenta con la ragione di chiarire sé a se stesso.

Per questo Socrate fece suo il motto dell’oracolo delfico Conosci te stesso, vedendo in esso la motivazione ultima del filosofare e la missione stessa del filosofo. E poiché secondo Socrate non si è uomini se non fra uomini, la sua filosofia assunse i caratteri di un dialogo interpersonale.

Per Socrate la prima condizione della ricerca e del dialogo filosofico è la coscienza della propria ignoranza: sapiente è soltanto chi sa di non sapere. Tale tesi socratica da un lato funge da richiamo ai limiti della ricerca, per gli individui che credono di possedere salde certezze sulla vita, dall’altro funziona come un invito a indagare, incoraggiando la possibilità di una ricerca sull’uomo.

Per rendere consapevoli gli individui della loro ignoranza, Socrate si avvale dell’ironia (eironéia = dissimulazione). L’ironia socratica è il gioco di parole attraverso cui il filosofo giunge a mostrare il sostanziale non-sapere in cui si trovano. Facendo finta di non sapere, Socrate chiede al suo interlocutore di renderlo edotto circa il settore cui è competente. Utilizzando l’arma del dubbio e confutando, Socrate mostra alla persona l’inconsistenza delle sue persuasioni.

Ciò non significa però che Socrate, dopo aver vuotato la mente del discepolo, si proponga di riempirla con una sua verità. Socrate non vuole comunicare dall’esterno una propria dottrina, ma stimolare l’ascoltatore a ricercarne dall’interno una propria. Da ciò la celebre maieutica o arte di far partorire: come la madre di Socrate, levatrice, aiutava le donne a partorire i bambini, così Socrate, ostetrico di anime, aiuta gli intelletti a partorire il loro genuino punto di vista sulle cose.

Ci domandiamo cosa facesse partorire Socrate ai propri interlocutori. L’interrogatorio definitivo è in realtà il tì ésti (che cos’è?), ossia la richiesta di una definizione precisa di ciò di cui si sta parlando. Ai lunghi discorsi ammaliatori dei Sofisti (le macrologie), Socrate contrappone i discorsi brevi (le brachilogie). La domanda conduce così verso una definizione soddisfacente dell’argomento.

Mentre per virtù i Greci intendevano il modo migliore di comportarsi nella vita, Socrate concepisce la virtù come scienza e ricerca. Egli sostiene inoltre che la virtù non è un dono gratuito ma una faticosa conquista, in quanto l’essere-uomini è il frutto di un’arte difficile.

Per essere uomini è indispensabile riflettere criticamente sull’esistenza. Secondo Socrate non esistono il Bene e la Giustizia come entità metafisiche e metri cui commisurare le azioni: non si tratta del Bene, ma di un bene concreto, che diviene di volta in volta ma che domani può essere non bene. Da questa concezione, Socrate ricava che la virtù è unica in quanto ciò che gli uomini chiamano virtù sono modi di essere al plurale dell’unica virtù al singolare, la scienza del bene.
La virtù socratica non è una negazione ascetica all’esistenza, ma un suo potenziamento tramite la ragione, un calcolo intelligente finalizzato a rendere migliore e più felice la nostra vita. Di conseguenza Socrate non ha voluto uccidere la vita, come sostenuto da Nietzsche: di fronte al caos degli istinti ha semplicemente voluto proporre all’uomo l’ordine della ragione.

L’influenza di Socrate si era già esercitata su una generazione, quando tre democratici – Meleto, Anito e Licone, lo denunciarono alla città, accusandolo di non riconoscerne i dei tradizionali e corrompere i giovani. Riconosciuto colpevole, Socrate avrebbe potuto andare in esilio o proporre una pena adeguata al verdetto: piuttosto, dichiarò di sentirsi meritevole di essere nutrito a spese pubbliche. Ne seguì la condanna a morte. Il lealismo di Socrate verso la Città e le leggi è dato dall’idea che l’uomo sia tale solo in quanto rapportato alla società. L’uomo è figlio delle leggi.

Fu la democrazia restaurata che volle nel 399 il processo del filosofo. Dopo la sconfitta subita ad opera degli spartani, Atene guardava al passato glorioso come un patrimonio da conservare e tendeva a chiudersi alle novità rivoluzionarie. Di conseguenza, un uomo come Socrate, indipendente in fatto di religione e spregiudicato in filosofia, appariva pericoloso.

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Socrate