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Umano, postumano, chimerico. Il Cremaster Cycle di Matthew Barney

La lente attraverso la quale si è soliti leggere la storia dell’arte contemporanea (perlomeno quella che va dagli anni Ottanta a oggi), sembra ogni volta acquisire una forma differente: di quella stessa storia, non si è in grado perciò, di avere sempre una sola ed unica interpretazione e per questo, al suo interno, non è possibile trovare molti punti di riferimento. Tra quei pochi che possiamo riuscire ad individuare, uno dei più importanti è sicuramente Matthew Barney (San Francisco, 1967), visionario artista statunitense che riesce a fondere insieme le più stimolanti forme espressive dell’arte del XX secolo, mescolando video e body-art, cinema e musica pop, scultura e performance.
Una realtà parallela è quella nella quale veniamo catapultati durante la fruizione dei lungometraggi del suo Cremaster Cycle, dove il tempo sembra congelarsi e lo spazio sembra estendersi all’infinito, e dove sono i corpi a scolpire le immagini, oggetto della nostra visione. Queste stesse immagini ci appaiono, tutto a un tratto, come creature viventi che solo noi possiamo mantenere in vita, non staccando loro mai gli occhi di dosso.
Obbiettivo di questa tesi sarà pertanto quello di concentrare la propria attenzione sui vari personaggi protagonisti del Cremaster Cycle, cercando di definirne i ruoli e provando a comprenderne, dove possibile, le stravaganti logiche di comportamento.

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5 Introduzione La lente attraverso la quale si è soliti leggere la storia dell’arte contemporanea (perlomeno quella che va dagli anni Ottanta a oggi), sembra ogni volta acquisire una forma differente: di quella stessa storia, non si è in grado perciò, di avere sem- pre una sola ed unica interpretazione. “Non avendo a disposizione il filtro del tem- po, è una storia che a seconda di chi la racconta ha versioni diverse o diverse ver- sioni” 1 e per questo, al suo interno, non è possibile trovare molti punti di riferimen- to. Tra quei pochi che possiamo riuscire ad individuare, uno dei piø importanti è sicuramente Matthew Barney (San Francisco, 1967), visionario artista statunitense che riesce a fondere insieme le piø stimolanti forme espressive dell’arte del XX se- colo, mescolando video e body-art, cinema e musica pop, scultura e performance. Potrebbe quindi essere costruttivo e affascinante, affrontare una riflessione che cerchi di focalizzarsi su uno degli aspetti piø interessanti della sua opera, e cioè sull’insistenza con la quale i corpi (soprattutto umani, ma non solo) costituiscono sempre il fulcro della rappresentazione all’interno delle sue operazioni artistiche. L’apice creativo di questa “filosofia dei corpi” si trova nel suo lavoro piø im- portante: il Cremaster Cycle. Il percorso che permette il consolidarsi di tale manie- ra di mettere in scena la corporalità, parte però da molto piø lontano, attraversando alcuni dei suoi lavori precedenti. Il primo tentativo con il quale Barney cerca di entrare nel mondo dell’arte è già in questo senso incredibilmente prorompente: Drawing Restraint 1 2 , datato 1987, viene da lui realizzato a soli vent’anni, mentre sta frequentando la Yale University. La performance vede il Nostro intento a realizzare un disegno su un foglio appeso nella parte piø alta del muro di una stanza, cercando di arrampicarsi sullo stesso grazie all’aiuto di vari attrezzi installati (quali corde o maniglie), con la difficoltà aggiuntiva di essere legato al pavimento da una fascia elastica. Il disegno deve ap- punto essere creato nel momento di massima tensione della fascia e quindi durante 1 Francesco Bonami, Arte Contemporanea - Duemila, Mondadori Electa, Milano 2008, p. 7. 2 Del ciclo Drawing Restraint sono stati realizzati in tutto, fino ad oggi, sedici capitoli (cfr. http://www.drawingrestraint.net).

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Informazioni tesi

  Autore: Gabriele Baldaccini
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2009-10
  Università: Università degli Studi di Pisa
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Scienze dei beni culturali
  Relatore: Alessandra Lischi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 50

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Parole chiave

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david cronenberg
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postorganico
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shinya tsukamoto
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