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Arlecchino servitore di due padroni per la regia di Giorgio Strehler

Nato nel 1947 come una scommessa, legata ad un’altra più grande come la fondazione del Piccolo Teatro di Milano, per iniziativa di Giorgio Strehler e Paolo Grassi, l’Arlecchino si è concretizzato nel tempo diventando una realtà ricca di quella magia e quel mistero che da sempre affascina gli studiosi di teatro: la ri-presentazione dell’antica Commedia all’italiana.
Lo spettacolo si presentava quale simbolo della teatralità pura, recupero dell’essenza del “mestiere” dell’attore, ma anche spettacolo-gioco, portatore di allegria, scevro di significati “altri”, per un’Italia segnata dalla guerra che aveva bisogno di dimenticare il dolore di lutti e di miserie.
Giorgio Strehler non è stato il primo in Italia a tentare un recupero della Commedia dell’Arte, infatti sempre nel ‘900, c’era stato il tentativo di Renato Simoni con i suoi allestimenti veneziani degli anni trenta, attenti soprattutto ad una ricostruzione filologico-testuale.
Fu in Europa, tuttavia, grazie a Majerchol’d e Vachtàngov in Russia ed a Max Reinhardt in Germania che si ebbero i maggiori tentativi di recupero.
Max Reinhardt, in particolare, nel 1924 diede alle scene Il servitore di due padroni di Goldoni e fu proprio questo allestimento ad influenzare la visione strehleriana del testo goldoniano.
La prima edizione de Il servitore di due padroni, fatta al Piccolo Teatro, si rifà non alla prima versione del testo, ovvero il canovaccio del 1745 (edito 1750 ed.: Bettinelli), ma a quella definitiva del 1753, riscritta nella sua interezza da Goldoni per non vedere la sua opera involgarita dall’interpretazione a soggetto di alcuni comici.
Non c’è un lavoro di riscrittura dell’opera, a Strehler interessa il ritmo scenico, il teatro tout-court.
Tutto è molto stilizzato: dagli scenari disegnati da Gianni Ratto, ai costumi di Ebe Colciaghi; le maschere sono di cartapesta scomode e dolorose, Marcello Moretti, primo Arlecchino del Piccolo, ha la maschera dipinta sul volto.
Pochi sono i cambiamenti rispetto al testo, di cui Strehler rispetta quasi totalmente la parola.
Dopo quella del ’47, ci saranno altre nove edizioni, che vedranno lo spettacolo mutare piano piano, con i primi tentativi di un’impronta realistica del ’52 (seconda edizione), dove compaiono le maschere in cuoio di Amleto Sartori, mentre le scene di Ratto e i costumi di Ebe Colciaghi si rinnovano in eleganza, prestando maggiore attenzione filologica agli ambienti e alle mode settecentesche.
Nell’87 l’Arlecchino torna al Piccolo, per un Addio: i comici stanchi, dopo quarant’anni di spettacoli, sono pronti a deporre le maschere.
La scena è spoglia ed illuminata solo da luci di candela, l’aria è malinconica, il realismo sfocia in rarefazione poetica.
Ma la forza di Arlecchino è quella di rinascere e, nel ’90, nasce uno spettacolo nuovo: quello del Buongiorno.
Vediamo in scena tre o quattro attori che si alternano nello stesso ruolo.
E’ un Arlecchino di giovani, solo il protagonista è sempre lo stesso: Ferruccio Soleri.
Nel ’92 non c’è alcun cambiamento; la nona edizione è solo un omaggio per il Bicentenario della morte di Goldoni avvenuta nel 1793 a Parigi.
Il ’97, ultima edizione, quella del 50° anniversario dell’Arlecchino e, al tempo stesso, del Piccolo Teatro.
L’Arlecchino è, di fatto, quello proposto per l’Addio con i mutamenti e gli arricchimenti di cinquant’anni di esperienza.
Due soli interpreti in cinquant’anni: il primo Marcello Moretti (1947-1961), il secondo Ferruccio Soleri (1963-2000).
Moretti, primo Arlecchino del Piccolo, ha un rapporto difficile con la maschera che accetta con molta difficoltà tanto da dipingersela sul volto; il suo è un Arlecchino semplice, molto realistico, poco atletico, malinconico.
Per interpretarlo Moretti non affronta studi filologici sulla maschera.
Soleri, suo successore, approda alla compagnia dell’Arlecchino nel ruolo di cameriere, studia tra le quinte Moretti, ma non deriva da questi le caratteristiche e i giochi che faranno sua la maschera.
Tra il ’61 e il ’63 dapprima sostituisce Moretti, poi ne eredita il ruolo.
Soleri ha un rapporto idilliaco con la maschera, il suo Arlecchino è allegro, naif; le sue doti ginniche e di ballerino danno una nuova impronta al maschera, con un’accentuata spinta acrobatica.
Una ricostruzione non semplice, quella della “vita” dell’Arlecchino servitore di due padroni, soprattutto per quel che concerne la focalizzazione dei mutamenti intercorsi tra la prima edizione del 1947 e l’odierna nella versione dell’ultima regia firmata da Giorgio Strehler nel 1997.

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1 INTRODUZIONE “I due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro... ” Carlo Goldoni Quando Il servitore di due padroni appare per la prima volta sulla scena italiana siamo nel 1746, Goldoni la scrive l’anno prima sotto espressa richiesta di Antonio Sacchi (famoso Truffaldino della Commedia dell’Arte ed attore molto amato da Goldoni stesso), il quale per invogliarlo nella scrittura gli invia addirittura un soggetto. 1 E’ da ricordare che il Goldoni in questo periodo si dà all’avvocatura ed “abbandona” il mondo dell’arte, quando appunto a Pisa viene raggiunto dalla lettera di Sacchi: “Nel bel mezzo dei miei lavori e delle mie occupazioni una lettera da Venezia viene a distrarmi, e mi mette in agitazione tutto il sangue e tutti i sentimenti: era una lettera di Sacchi. Questo attore era 1 Soggetto desunto dallo scenario intitolato Arlequin valet de deux maìtres, recitato nel ‘700 dal capocomico Luigi Riccoboni a Parigi e raccolto nel suo Nouveau

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Informazioni tesi

  Autore: Daniela Bolognetti
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 1999-00
  Università: Università degli Studi di Napoli - Federico II
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Lettere
  Relatore: Ettore Massarese
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 224

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