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Politica estera degli Stati Uniti in tema di diritti umani da Nixon a Carter

Henry “Scoop” Jackson

Henry Jackson, anticomunista viscerale e amico d’Israele, agli inizi degli anni ‘70 era già una personalità di spicco nella vita politica statunitense; membro fra i più influenti al Senato in cui fu presidente della Commissione degli Affari Interni, era conosciuto per la sua esperienza nelle questioni di sicurezza e politica estera. Le sue idee politiche erano considerate progressiste nella domestic policy, e conservatrici in foreign policy.
All’interno del partito democratico si distinse per la sua fedeltà al liberalismo della Guerra Fredda. La sua fama portò il Presidente Nixon ad offrirgli il posto di Segretario alla Difesa, ma i suoi principi democratici gli impedivano di mettersi al servizio di un’Amministrazione repubblicana, e per questo declinò l’offerta. Dagli anni ‘70 Jackson divenne un oppositore della distensione, continuando a considerare l’Unione Sovietica come un regime totalitario, condannando anche tutti gli accordi per la limitazione degli armamenti. Mentre Nixon cercava una svolta nei rapporti bilaterali, Jackson auspicava un moralismo che era ormai considerato superato.

Il senatore fu sin dall’inizio virulento oppositore al piano Rogers, e invece forte sostenitore del Defense Procurement Act, che esprimeva la preoccupazione del Congresso riguardo il ruolo crescente dell’Unione Sovietica in Medio Oriente.
Nel luglio 1971, Jackson introdusse una risoluzione sulla persecuzione degli ebrei in Unione Sovietica, chiedendo al Presidente di intervenire sulla politica moscovita per ottenere la cessazione delle pratiche violanti i diritti in causa. Nel dicembre dello stesso anno, il senatore si espresse per la prima volta in modo netto dichiarando la sua volontà di utilizzare il commercio per esercitare pressione sul Cremlino. […]
Ma l’operato di Jackson era ancora troppo debole per ottenere il consenso del Presidente, e le organizzazioni ebraiche statunitensi preferivano non creare degli attriti con l’Amministrazione.
Da parte sua, Mosca iniziava a cedere alle pressioni che benché ufficiose, cominciavano a preoccupare il suo governo: in quattro anni il numero di ebrei che potevano lasciare il paese passava da circa 1.500 unità a 14.000 unità. Questo cambiamento peraltro corrispondeva ai diversi avvenimenti internazionali: dopo la guerra dei Sei Giorni il numero di visa concessi era diminuito, ma negli anni immediatamente successivi l’emigrazione sembra diventare la regola, ed il rifiuto l’eccezione. In qualche modo l’Unione Sovietica eliminava un’eventuale richiesta israeliana in tavolo di negoziati.

L’Unione Sovietica probabilmente si rese conto che col crescere della campagna sionista negli Stati Uniti, era necessario attirare l’attenzione pubblica su cambi di politica. All’interno della sfera internazionale, il cambio di rotta del governo sovietico probabilmente si giustifica maggiormente con le convergenze di alleanza: effettivamente con l’arrivo di Anwar Sadat al potere in Egitto, e la fine dell’epoca nasseriana che aveva fortemente volto il suo sguardo verso un comunismo che potesse distruggere l’imperialismo israeliano e statunitense, sanciva la fine del rapporto privilegiato, ed un avvicinamento al mondo occidentale.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Politica estera degli Stati Uniti in tema di diritti umani da Nixon a Carter

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Informazioni tesi

  Autore: Melania Ligas
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2009-10
  Università: Università degli Studi di Cagliari
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Relazioni internazionali
  Relatore: Liliana Saiu
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 142

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