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La responsabilità civile del magistrato e dell'arbitro

Diniego di giustizia e diritto all’equa riparazione per il mancato rispetto del termine ragionevole del processo

Le ragioni addotte alla fine del precedente paragrafo spiegano perché la figura del diniego di giustizia non abbia attualmente quasi nessuna operatività e il legislatore, spinto da un giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo particolarmente attenta ai tempi processuali, sia stato indotto ad introdurre una nuova disciplina che consenta alle parti di ottenere una riparazione dei danni subiti dall’eccessiva durata dei processi.
Si tratta della legge 24 marzo 2001, n. 89, “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’art. 375 del codice di procedura civile”, ribattezzata “Legge Pinto”, dal cognome del suo promotore in Parlamento.
L’art. 2, comma 1 di detta legge prevede il diritto ad un’equa riparazione del danno (patrimoniale e non patrimoniale) causato dalla violazione, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole del processo, dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, ratificata dalla Legge 4 agosto 1955, n. 848.
Esula dal campo della presente indagine quello di spiegare le ragioni che hanno “costretto” il legislatore ad approntare tale normativa e l’impatto prodotto da tale innovazione nel nostro ordinamento; ci si concentrerà invece a delineare quali siano i rapporti intercorrenti tra la legge 13 aprile 1988 n. 117 e la cosiddetta “Legge Pinto”.
Infatti, la gran parte dei ritardi (colpevoli o no) processuali è sovente eziologicamente riconducibile anche a provvedimenti adottati dal magistrato stesso (fissazione di udienze, tempi per la decisione), oltre che alle incombenze direttamente ascrivibili ad altri soggetti (cancellieri, ufficiali giudiziari…).
Posto che nella legge n. 89 del 2001 non v’è alcuna norma di raccordo con la legge sulla responsabilità civile dei magistrati, occorre all’interprete procedere all’esatto coordinamento tra i due impianti normativi. A prima vista, si potrebbe essere indotti a pensare ad una irrazionale sovrapposizione di rimedi in merito all’ingiustificato ritardo, quando questo sia imputabile ad una condotta omissiva del magistrato, suscettibile di integrare l’ipotesi di diniego di giustizia di cui all’art. 3 della Legge n. 117 del 1988, cui consegue il diritto del cittadino al risarcimento del danno.
I procedimenti di cui alla citata legge n. 117 del 1988 e n. 89 del 2001 hanno in comune la loro impostazione di fondo, che è quella di consentire al cittadino un’azione diretta contro lo Stato – giudice (e non anche nei confronti del magistrato persona fisica cui sia eventualmente imputabile il ritardo). In realtà si è di fronte a due rimedi nettamente distinti nei presupposti, nella natura giuridica e nelle conseguenze che ne derivano.
In primo luogo, mentre è indubbio che l’azione ex art. 3 della legge n. 117/1988 abbia carattere risarcitorio, la natura giuridica della riparazione che lo Stato ha l’obbligo di corrispondere in caso di accertamento dell’irragionevole durata del processo è stata oggetto di ampio dibattito in dottrina e giurisprudenza.
Gli schemi giuridici ai quali si è fatto ricorso sono principalmente due: quello dell’indennità per atto lecito dello Stato e quello della responsabilità civile ex art. 2043 e ss. c. c.
Infatti, il concetto giuridico di “equa riparazione” presenta natura giuridica ambigua.
Se da un lato il termine “riparazione” appare lessicalmente alludere a forme riparatorie di carattere indennitario, dall’altro la previsione espressa del “danno patrimoniale o non patrimoniale”, come oggetto della riparazione e fonte dell’obbligo riparatorio, sembra riferirsi alla natura propriamente risarcitoria. La configurazione dell’equa riparazione nell’orbita degli obblighi di natura indennitaria si fonda sia sull’assunto che l’attività giudiziaria è, per definizione, un’attività lecita, che non diviene illecita per il solo fatto del suo “eccessivo protrarsi”, sia sul tenore letterale della “Legge Pinto” che, al comma 1 dell’art. 2, parla non di “risarcimento”, ma di “equa riparazione”, la quale è qualificata espressamente come “indennizzo” dal comma 7 dell’art. 3, secondo cui “l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene, nei limiti delle risorse disponibili, a decorrere dal 1° gennaio 2002”.
Altra parte della dottrina non ha ritenuto condivisibile la tesi della natura indennitaria della riparazione: la fonte della responsabilità dovrebbe, infatti, essere rinvenuta nella lesione del diritto soggettivo, costituzionalmente riconosciuto dal novellato art. 111, 2° comma Cost., del cittadino ad avere un processo di durata ragionevole, la cui lesione fa sorgere in capo allo Stato una responsabilità oggettiva di “tipo relativo”, visto che assumono rilevanza per diretta previsione normativa, le caratteristiche del caso, nonché la condotta delle parti. L’accertamento della responsabilità legittima il soggetto danneggiato a conseguire l’ “equa riparazione”del danno, patrimoniale e non, sofferto.
L’aggettivo usato (“equa”) “più che ad un meccanismo di natura indennitaria fa riferimento ad un risarcimento che vuole essere personalizzato in funzione delle caratteristiche del caso e degli interessi coinvolti”.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La responsabilità civile del magistrato e dell'arbitro

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Informazioni tesi

  Autore: Simone Briglia
  Tipo: Tesi di Laurea
  Anno: 2007-08
  Università: Università degli studi di Genova
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Andrea D'Angelo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 215

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