La Rivoluzione Industriale inglese. Variabili economiche e dibattito storiografico

Alla vigilia della rivoluzione industriale l'Inghilterra si presentava indubbiamente, rispetto alle altre nazioni, come un paese con un'economia aperta: le esportazioni pesavano sul PIL circa per il 15 %, erano dirette per la maggior parte verso paesi extraeuropei (dal momento che sul continente erano diffuse politiche mercantilistiche di ostacolo alle importazioni) ed erano costituite da prodotti di stoffe fresche e colorate, quindi tessuti di lana leggera e quadrettati di cotone di Manchester, oggetti metallici semplici ed economici quelle destinate all'Africa e alle Indie (Orientali e Occidentali), tessuti più pesanti e articoli di ferramenta di migliore qualità quelle dirette verso il Nord America.
Quanto il commercio internazionale abbia influito sulla rivoluzione industriale è difficile a dirsi, non v'è accordo tra gli studiosi.
Molti affermano che il commercio internazionale non sia stata una causa, ma una conseguenza, dello sviluppo industriale; lo sviluppo dei traffici internazionali sarebbe stato quindi il risultato dello spostamento della curva dell'offerta, vero motore della rivoluzione industriale.
Altri ritengono invece che esso sia stato uno stimolo essenziale della crescita britannica. Si argomenta infatti che proprio grazie al commercio l'Inghilterra potè importare beni che da sola non avrebbe potuto produrre (o produrre solamente a costi elevati) e concentrare la sua produzione in quei settori dove, secondo un'ottica di divisione e specializzazione internazionale del lavoro, godeva dei maggiori “vantaggi comparati”. Risulta quindi logico ipotizzare che il reddito di un'Inghilterra con economia chiusa sarebbe stato sensibilmente inferiore.
Ma una cosa è ammettere che il “guadagno proveniente dal commercio” sia stato cospicuo, un'altra è individuare nel commercio internazionale il motore della rivoluzione industriale.