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Il prezzo della verità. Professione inviato di guerra.

Oriana Fallaci: "un'inviata di guerra che faticava come un soldato"

"Io volevo soltanto raccontare la guerra a chi non la conosce", scriveva la Fallaci.
Oriana Fallaci (Firenze, 29 giugno 1929 – Firenze, 15 settembre 2006) è la più celebre dei corrispondenti italiani di guerra. Cresciuta durante la Seconda guerra mondiale, figlia di un padre partigiano torturato dai fascisti, Oriana è diventata adulta con l'immenso desiderio di raccontare la guerra, quella che lei stessa definì "inutile e sciocca, la più bestiale prova d'idiozia della razza terrestre". Si è conquistata larga fama in tutto il mondo con i suoi reportage dal Vietnam. Scrittrice di talento, dal tipico carattere aspro toscano, ha saputo raccontare storie e drammi squarciando un lampo di verità sui risvolti più crudi del conflitto indocinese, a quel tempo ancora semi clandestino per molti giornali. "
"Lo sai? Lo sai che sono più brava di Hemingway?" - diceva Oriana. Era più incline alla provocazione. Non amava le mezze misure. Voleva suscitare emozioni forti. Raccogliere consensi incondizionati o rifiuti decisi. Con lei potevi essere amico o nemico. Nero o bianco. Il grigio non le piaceva. L'infastidiva. Dunque in quell'inverno del 1981 presi alla lettera Oriana Fallaci. Non era facile trattare con Oriana. A Saigon, negli ultimi anni Sessanta, Egisto Corradi e io ci appostavamo nell'ingresso dell'Hotel Continental e dopo averla vista uscire andavamo nella direzione opposta. La sua compagnia era impegnativa". Quella era la giovane Fallaci. A parlarne è Bernardo Valli che con la Fallaci seguì il conflitto in Vietnam. C'era una vicenda nella vita della grande giornalista che segnava un prima e un dopo ed era proprio il Vietnam. A lungo per lei la differenza è stata "fra chi c'era stato e chi non c'era stato". Non importava per chi uno avesse tenuto, per il Nord o per il Sud, l'importante era che uno avesse fatto o non avesse fatto quell'esperienza. Per i giornalisti che non hanno vissuto quegli anni in Asia può sembrare un curioso criterio di giudizio, lo stesso vale per i tanti che avendo passato soltanto qualche giorno o settimana in Estremo Oriente hanno poi vantato di aver vissuto avventure mirabolanti e si sono sentiti esclusi, snobbati, dai veri corrispondenti. Ma è un fatto che quest'ultimi, i veri corrispondenti dal Vietnam come la Fallaci, si sono a lungo considerati un'aristocrazia del giornalismo. Nel 1969, dopo i reportage dal Vietnam del Sud poi raccolti in "Niente e così sia", Oriana Fallaci fu invitata dal governo di Ho Chi Minh a visitare il Vietnam del Nord. Così come nel Sud dove aveva condannato la politica estera americana, qui sarà la prima a esprimere posizioni critiche contro un regime immobile, cupo, "chiuso a chiave in una muraglia ideologica". Quando la guerra si spostò in Cambogia, prima racconterà i travagli dell'America e poi raggiungerà Phnom Penh per raccontare i khmer rossi e il corrotto e astutissimo re Sihanouk. Infine Oriana tornò a Saigon per documentare l'avanzata di nord vietnamiti e vietcong e la sconfitta americana. Raccolti per la prima volta in un libro, i suoi reportage danno la misura non solo del coraggio e dell'acutezza di una giornalista di prima linea ma anche della sua immensa grandezza di scrittrice. In Vietnam, in Cambogia, così come in Libano faticava come un soldataccio. "Mentre seguivamo la guerra del Bangladesh nei primissimi anni Settanta" - ha continuato Valli" - il mio nome fu estratto a sorte con quelli di altri quattro cronisti, scelti per partecipare alla presa di Dacca insieme all'esercito indiano. Oriana mi offrì un migliaio di dollari per prendere il mio posto. Prima mi dichiarai offeso dalla proposta, poi le dissi che il baratto era impossibile anche perché, se io avessi ceduto, lei avrebbe cominciato la corrispondenza dalla capitale del Bangladesh appena espugnata scrivendo: "Il biglietto per Dacca mi è costato mille dollari. L'ho comperato da un collega fannullone e squattrinato, alla partenza da Calcutta...". Lei scoppiò in una risata. Era l'incipit che sognava". Le pagine del giornale le andavano strette e le capitava spesso di straripare da quegli spazi angusti. Amava saltare da un elicottero all'altro, sguazzare nel fango, sudare anzi "friggere" sotto un elmetto arroventato o rinchiusa in un autoblindo. La gente che le stava attorno aveva visto raramente qualcuno lavorare con tanta passione, trasferire quel sentimento nei propri scritti e riuscire a imprimere su ogni frase tante sequenze di immagini significative. Oriana non dimenticava un solo istante che per essere letta da molti bisogna stupire e quindi accendere fantasie e ferire suscettibilità, sia pure senza mai perdere di vista i bersagli reali, quelli che contano. La cronaca impressionista, ricavata da una profonda e sofferta immersione nei fatti, era la sua specialità. Da lì si è innescato il suo straordinario successo, in gran parte confluito nel suo rudimentale odio per l'Islam, espresso in "La rabbia e l'orgoglio". I camerieri del piano terra dell'Hotel Imperial, a Nuova Delhi, dove Oriana alloggiava nel Natale 1971, mentre scriveva un articolo per l'Europeo, erano terrorizzati da quella cliente che in camicia da notte scriveva a macchina da due giorni, ordinando a ripetizione tazze di tè e di caffè e scacciando con urla isteriche chi osava disturbarla, nella camera cosparsa di fogli accartocciati. A sessantadue anni Oriana si trovò di nuovo al fronte ma questa volta di uno senza storie, dove il racconto ricco di immagini, colte dal vivo, era impossibile. Nel 1991, quando non si conosceva il giorno in cui sarebbe cominciata la guerra del Golfo, quella promossa da Bush senior, Oriana tempestava di telefonate amici e colleghi. La grande truppa si mosse infine in direzione del Kuwait per fermarsi alle porte di Baghdad e la Fallaci si precipitò in prima linea. Dove però non c'era la guerra perché quella del Golfo fu soprattutto, per gli americani e i loro alleati, un'operazione logistica. Molti tra i giornalisti accorsi nell'Arabia Saudita, non furono neppure ammessi alle conferenze stampa. Erano migliaia e non c'erano abbastanza seggiole per tutti. Per la veterana del Vietnam fu una grande delusione. Il Washington Post descrisse l'anziana giornalista come quella che pronunciava invano il suo magico nome per raggiungere persone e luoghi inaccessibili ai comuni mortali. Oriana Fallaci era celebre a New York, non era un nome noto soltanto nelle redazioni della stampa popolare ma anche nelle biblioteche universitarie e tra gli esperti politici. C'erano almeno un paio di dipartimenti di giornalismo (ad esempio la Michigan State University) che usavano le sue interviste, registrazioni e testi a fronte, come modello.

Quando la Fallaci si considerava "più brava di Hemingway" era l'autore di libri venduti a milioni di copie nel mondo, dal Giappone all'Argentina. Il suo romanzato amore per Panagulis, eroe della resistenza greca al regime dei colonnelli descritto in "Un uomo" e "La lettera a un bambino mai nato", le avevano procurato una notorietà mai conosciuta da un giornalista italiano. Gli articoli che scriveva per l'Europeo venivano venduti in almeno trenta paesi. Le sue interviste con personaggi celebri (che con gli anni compresero Kissinger, Khomeini, Golda Meir, Gheddafi, Deng Xiaoping...) contribuivano al successo. Quella con Khomeini fece scalpore perché Oriana disse di essersi strappata di dosso lo chador in segno di protesta davanti al grande ayatollah. Lei stessa raccontò poi che se l'era tolto perché faceva caldo. Facevano effetto nelle sue interviste le domande spesso impertinenti, sfacciate, provocatorie ai potenti della Terra. Un giorno, durante l'assedio di Beirut da parte dell'esercito israeliano (1982), la Fallaci era all'hotel Alexandra, sul quale passavano puntualmente fischiando i tiri dell'artiglieria di Tsahal destinati ai fedain palestinesi di Arafat. Aveva dovuto cambiare camera perché la sua era stata sconvolta da un forte spostamento d'aria ma non era quello che la preoccupava: era alla ricerca di Ariel Sharon, allora ministro della difesa israeliano e non riusciva a trovarlo. Era il nuovo uomo del momento da aggiungere alla sua raccolta di interviste celebri. Dall'esperienza libanese ha poi ricavato il suo libro più ambizioso, "Insciallah", in cui affronta tutte le discipline, dalla filosofia alla matematica, dalla storia alla letteratura. I protagonisti sono gli ufficiali e i soldati del corpo di spedizione italiano in Libano, ai tempi delle sfortunate forze multinazionali mandate invano laggiù (1982-1983), all'altra estremità del Mediterraneo, affinché riportassero la pace a Beirut. Quella vicenda ha ispirato a Oriana una "piccola Iliade". "Per entrare bisognava superare grossi ostacoli. Anzitutto i carabinieri che fermavano chiunque si avvicinasse e che ispezionavano coi metal detector persino gli automezzi del contingente. Poi il passaggio a serpentina che si insinuava dentro il terrapieno e il Leopard che concluso il passaggio a serpentina bloccava il transito e soltanto dopo un secondo controllo effettuato dal capocarro ti lasciava passare: raggiungere il cortile cioè il pezzo di carreggiata sottratta al viale dove però subivi un ulteriore controllo. Nel giardino le difese sfioravano i parossismo: un solido muro con le feritoie rinforzava l'intero perimetro, a ciascuno dei quattro angoli torreggiava un'altana con due uomini e una mitragliatrice, sul terrapieno centine di filo spinato fiancheggiavano congegni elettronici che al minimo tocco davano l'allarme sprigionando un denso fumo arancione. Quanto alla villa, era completamente avvolta nei sacchi di sabbia sicché da lontano pareva una mastodontica mummia fasciata di nero e all'esterno il Comando offriva uno spettacolo quasi sinistro". Era prevedibile che quella, un giorno, sarebbe diventata un'opera epica.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il prezzo della verità. Professione inviato di guerra.

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Informazioni tesi

  Autore: Silvia Santini
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2010-11
  Università: Università degli Studi di Urbino
  Facoltà: Sociologia
  Corso: Comunicazione e Pubblicità per le Organizzazioni
  Relatore: Giannetto Sabbatini Rossetti
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 142

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