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Impatto degli ungulati selvatici in boschi cedui dell’Alpe di Catenaia e considerazioni generali sul ruolo della fauna in ambiente appenninico

"Il problema faunistico"

Si tende da sempre a separare la componente vegetale da quella faunistica; le motivazioni sono molteplici e possiamo affermare che fino agli ultimi decenni l'evoluzione della fauna era sempre avvenuta spontaneamente e in linea con gli equilibri che si registrano negli ambienti naturali.

Studi relativi al rapporto "fauna – bosco" erano già stati svolti in Italia, in maniera sporadica, soprattutto sulle Alpi, in particolare nei boschi di conifere e nelle aree protette, dove per la prima volta sono emerse le problematiche conseguenti all'impatto degli ungulati sulla foresta (Provincia Autonoma di Bolzano, 1997). Tuttavia quando parliamo di "problema faunistico" definiamo un fenomeno dai caratteri nuovi e, rispetto al quale, molti interrogativi sono ancora da comprendere. In altre parole sono emersi oggi gli effetti dei cambiamenti avvenuti negli ultimi anni, che hanno causato l'insorgere di problematiche del tutto sconosciute fino a pochi decenni fa e come conseguenza di questo il problema faunistico viene ad identificarsi così come espressione dei cambiamenti avvenuti nelle popolazioni animali. Tali variazioni possono interferire con le attività umane, mettendo a rischio la stabilità dell'ecosistema e ponendo i forestali di fronte alla nuova esigenza di intervenire per equilibrare la dinamica evoluzione del bosco da un lato, e la salvaguardia dei fabbisogni nutritivi degli animali selvatici dall'altro. Questo in ragione del fatto che:

-E' cambiato il paesaggio e molte zone non sono più consone per alcune specie selvatiche, ma lo sono diventate per altre. Ciò è avvenuto nei territori di pianura, in collina e in alta montagna. A titolo d'esempio basti ricordare quello che vi è avvenuto alla piccola selvaggina (fagiani starne, pernici, lepri etc.) e all'esplosione numerica e territoriale degli ungulati. Questo fenomeno ha innescato il problema della cosiddetta "banalizzazione" dell' ecosistema, portando a una drastica semplificazione della biodiversità;

-Sono scomparsi i predatori naturali, e se pure per alcuni di essi si assiste oggi a una ripresa i tempi sono ancora lunghi. Né va dimenticato che una popolazione vitale di un predatore ha bisogno di un certo numero di esemplari e di un territorio vasto, indicativamente almeno di 150 000 ettari , il che è un problema, data la frammentazione dei boschi italiani, attraversati da strade e barriere che ne impediscono la continuità e delimitano delle vere e proprie isole faunistiche (Corrado, 1998);

-Più in generale i processi di "antropizzazione" hanno portato ad una riduzione della biodiversità complessiva. In parallelo l' aumento di specie opportuniste e la drastica riduzione di specie poco adattabili, ha alterato la qualità e la capacità di carico degli habitat e modificato la composizione quantitativa e qualitativa delle popolazioni selvatiche proprie della foresta. Come conseguenza, la fauna è diventata un fattore in grado di alterare i meccanismi di autoregolazione degli ecosistemi, dei quali è parte integrante da un punto di vista strutturale e funzionale (Memoli, 2003).

Tutto questo ha aperto nuovi problemi che definiremo per semplicità:

a) riguardanti la natura;

b) riguardanti l'uomo.

a) Per quanto riguarda gli effetti dei cambiamenti avvenuti nelle popolazioni animali, il problema della fauna assume oggi una dimensione nuova e non riguarda più solo le aree protette, che sono i primi territori dove storicamente si sono manifestati tali impatti, ma si è esteso ad ampio raggio su tutto il territorio; non ci dilungheremo in questo assunto, ma citiamo solo il fatto che numerosi studi condotti sugli ungulati hanno dimostrato come le conseguenze sull'ambiente causate dall'attività di alimentazione di questi animali possono risultare di portata tale da compromettere la sopravvivenza non solo del patrimonio forestale, ma anche degli ecosistemi e delle comunità a cui tali specie appartengono (Huntley 1991; Gill 1992a; Otto 1994). A tale proposito si ricorda il caso del Parco Nazionale Delle Foreste Casentinesi Monte Falterona e Campigna dove l'Abete bianco stenta a sopravvivere e rinnovarsi in presenza di un carico eccessivo di cervidi.

Se in alcune aree protette inoltre si assiste al cosiddetto effetto – isola, per il quale le popolazioni selvatiche si trovano "imprigionate" da ostacoli o barriere in tali territori e lì si riproducono incontrollatamente alterando profondamente l'assetto del sistema, d'altro canto anche nelle aree non protette si assiste oggi a una sempre più preoccupante estensione del fenomeno e al conseguente spostamento degli animali in ambienti sempre più utili all'uomo con tutte le problematiche che questo comporta.

b) Problematiche riguardanti l'uomo.

Nel passato i danni alla vegetazione causati dalla fauna selvatica erano localizzati all'interno di Parchi Naturali o di aree protette, ma poi si sono estesi a comprensori sempre più vasti. In Italia la prima testimonianza storica della presenza dei danni in aree non protette si è registrata nell' Alta Valle di Susa, un territorio di circa 60.000 ettari, coperto per un terzo dalla foresta. In tale regione, e in particolare all'interno di un'oasi di protezione della fauna, il Gran Bosco di Salbertrand, sono stati introdotti a partire dal 1963 – 64 cervidi, nel dettaglio 42 caprioli e 14 cervi, dei quali non era storicamente documentata la presenza nel passato. Trovando un habitat particolarmente favorevole, entrambe le specie iniziarono ad aumentare numericamente e ad espandersi su tutto il territorio della Alta Valle di Susa: già dopo dieci anni i cervi erano circa 200, più del doppio nel 1980 e risultavano ben 644 nel 1987; A partire dalla fine degli anni '60 si registrarono così i primi danni al Gran Bosco, danni che poi si sono estesi a tutta l'Alta Valle di Susa fino alle valli italiane e francesi confinanti.

Oggi problematiche nuove rispetto al passato e su cui la gestione si trova a intervenire sono:

-Gli incidenti stradali: in Europa si registrano 750.000 casi all'anno (Apollonio 2008)

-I danni alle colture agricole; si tratta di un problema di notevole complessità, per la rilevanza economica e sociale che ha assunto attualmente; se risulta evidente, infatti, come la liquidazione dei risarcimenti dei danni provocati dalla fauna selvatica alle colture rappresenti una voce di bilancio consistente per gli enti risarcitori, allo stesso tempo l'interferenza con l'agricoltura ha generato contrasti non sempre di facile armonizzazione, contrapponendo da un lato gli agricoltori e dall' altro gli enti erogatori, stante la delicatezza della questione dei danni e della loro rifusione, e comportando infine la necessità di identificare e attuare adeguate misure preventive.

-I danni al bosco; l'estensione del fenomeno dall'ambito agricolo al settore forestale ha posto problematiche di ancor più difficile risoluzione, in primo luogo per la difficoltà intrinseca di valutare tali danni nel bosco a differenza dei coltivi, come è stato illustrato nel capitolo precedente. Inoltre tale emergenza richiede un nuovo approccio normativo al problema, data l'esigenza di risarcire i danni e di attuare misure preventive degli stessi, che per le colture agricole sono previste per legge (art. 14 legge 157\92) mentre non lo sono nei boschi, dove l'adozione di opere o misure protettive è scoraggiato dai costi troppo elevati.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Impatto degli ungulati selvatici in boschi cedui dell’Alpe di Catenaia e considerazioni generali sul ruolo della fauna in ambiente appenninico

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Informazioni tesi

  Autore: Francesco Chianucci
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2007-08
  Università: Università degli Studi di Firenze
  Corso: Scienze e gestione delle risorse rurali e forestali
  Relatore: Riziero Tiberi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 99

FAQ

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Parole chiave

danni
capriolo
ceduo
gestion faunistica
brucatura

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