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Web 2.0 e pluralismo dell'informazione: contributi e limiti

Il potere di Google

Una delle promesse alla base della rivoluzione innescata da Internet e soprattutto dal Web 2.0 è quella di rendere possibile, in tutti i campi, un processo di disintermediazione.

È vero che, grazie alla rete, le barriere all’entrata non esistono più, o perlomeno si sono abbassate di molto. Il problema è, però, che oggi se ne stanno alzando di nuove, per alcuni versi più insormontabili delle precedenti, anche se i profeti della rivoluzione digitale sembrano non accorgersene. "Per entrare nel sistema, infatti, bisogna passare attraverso i cancelli delle piattaforme tecnologiche" che sono fondamentalmente di due tipi: motori di ricerca e società che gestiscono l’accesso. Questi nuovi intermediari dominano la rete, esercitando una funzione di filtro in assenza della quale nessuno sarebbe in grado di orientarsi nel mare magnum di informazioni e trovare ciò che gli serve. Quella di gerarchizzare le informazioni e indirizzare la visibilità si configura come una funzione fondamentale in un’economia dell’abbondanza qual è quella attuale, caratterizzata dal’information overload. Solo che, mentre gli intermediari sono veramente pochi e tendono all’oligopolio, i media e i produttori di informazioni sono invece tantissimi e tutti, da quelli mainstream all’ultimo blogger, non possono fare a meno dei primi per esistere in rete. Provider e motori di ricerca, inoltre, hanno un interesse statutario alla mercificazione della conoscenza, alla sua commoditizzazione e alla sua fungibilità, più che alla sua qualità. Anzi acquisiscono tanto più potere quanto più il sistema è sull’orlo della babele interpretativa e senza punti di riferimento, in quanto, affinché il loro potere di intermediazione sia effettivo, nessuno dei produttori di informazioni deve crescere più di tanto da poter suscitare nel pubblico un’attenzione autonoma che non sia reintermediata dalla tecnologia degli algoritmi di ricerca.

L’ecosistema della conoscenza profilato da Luca De Biase, caratterizzato dalla coda lunga dei contenuti e dall’infodiversità e basato su una relazione di simbiosi tra le diverse specie, che consentirebbe sviluppo e spazio per tutti, non regge all’analisi che ne fanno Russo e Zambardino. I rapporti di forza e il numero di soggetti in gioco sono fortemente asimmetrici e la torta pubblicitaria, l’ossigeno al quale tutti aspirano, considerando che non esistono, almeno per il momento, modelli di business alternativi, e tenendo conto del numero infinito di potenziali concorrenti, è una risorsa finita; di conseguenza è inevitabile che solo i soggetti più forti abbiano le maggiori chance di sopravvivere.

A livello mondiale, Google non solo ha una posizione dominante tra i motori di ricerca e detiene l’assoluto monopolio della pubblicità a performance; si è affermato come il principale punto di accesso alla rete, tanto da essere promosso a verbo inglese to google ed essere considerato "paradigma di conoscenza". Basti pensare che negli Stati Uniti detiene una quota di mercato delle ricerche online pari circa ai due terzi del totale, in Europa raggiunge l’80% e in Italia addirittura l’85% dell’utenza. Una posizione dominante desumibile anche analizzando le statistiche di traffico di qualsiasi sito web, con una quota che per le destinazioni più conosciute del web si aggira sul 40%, arrivando anche al 70% quando si tratta di destinazioni meno note, tanto da aver portato ad affermare che il vero concorrente dei giornali è Google.

Dal momento che i giornali online non hanno ancora trovato un modello di business di successo e che gli investimenti pubblicitari aggiuntivi, che potrebbero derivare da un aumento dei visitatori traghettati al sito da un aggregatore di notizie (quale Google News) non hanno un valore equivalente all’accesso diretto, questo risulta essere un problema. L’analisi di EJO (Osservatorio europeo di giornalismo) dal titolo "Giornali e Internet: come uscire dalla crisi?" evidenzia proprio come circa il 70% del traffico delle fonti informative sul web è generato da risultati di ricerca o feed Rss e soltanto una quota minoritaria degli accessi avviene attraverso un ingresso diretto al portale. Al di là del fatto che Google non distingue tra buono o cattivo giornalismo, ciò che sottolinea la ricerca è il comportamento "mordi e fuggi" del lettore, che impedisce di sfruttare nel modo più conveniente il potenziale pubblicitario del giornale.
Per un piccolo sito, giornale o blog che sia, poi, il posizionamento nell’indice di Google può fare la differenza tra la vita e la morte.
Ci troviamo davanti a un sistema incredibilmente pervasivo di gestione delle conoscenze. Dichiarandosi garante della trasparenza dei processi, della correttezza delle risposte, addirittura della democrazia, Google si pone come filtro, in realtà niente affatto trasparente, che controlla e indirizza l’accesso alle informazioni, esercitando in sostanza un potere enorme.

La formula della visibilità consiste in un algoritmo di ricerca, Page Rank, sviluppato da Larry Page e Sergey Brin, tuttora protetto da segreto industriale. Di certo si sa soltanto che il ranking, la posizione in classifica, viene determinato soprattutto rispetto al principio del link, e in particolare rispetto a due parametri: il numero dei link in entrata ad un sito, alla stregua di "voti" tramite cui gli utenti esprimono il loro giudizio in merito alla qualità e all’attendibilità del suo contenuto, e l’autorevolezza di tali link, nel senso che i link che arrivano da pagine che a loro volta vantano un numero elevato di connessioni valgono di più. A questi si aggiungono numerosi altri parametri, in un mix, però, continuamente in mutamento, con interventi nei criteri di visibilità, i cui tempi e modi sono del tutto discrezionali e circondati dalla più totale segretezza.

Il dogma della svari intelligence del Web 2.0 che seleziona l’informazione di qualità, incarnato in Page Rank, si basa, insomma, su un meccanismo di calcolo delle opinioni, in quanto non ha nulla di "oggettivo", ma nella migliore delle ipotesi rappresenta una sorta di indice di popolarità, "una popolarità che a sua volta, misura rapporti di potere economici e politici, nonché pregiudizi sociali e culturali di ogni sorta, più che la qualità, l’attendibilità e l’autorevolezza dei contenuti indicizzati".

L’immagine di "gigante buono" che Google si è conquistato, dipende probabilmente anche dalla connotazione valoriale positiva che si attribuisce a ciò che discende dalla filosofia open source. In realtà il gruppo Ippolita sostiene che l’adesione di Google ai principi dell’open source sia parziale e strumentale, finalizzata a "sedurre" la comunità degli sviluppatori per ottenerne il consenso. In effetti alcune delle sue applicazioni non sono affatto trasparenti e aperte: per esempio non rivela i dettagli sulla spartizione dei ricavi con i siti che ospitano la sua pubblicità, rifiuta di elencare pubblicamente tutte le fonti di Google News, ha scelto di non utilizzare software open source per tutte le sue funzioni, così da mantenere un vantaggio proprietario. È molto aperta invece quando si tratta di servirsi della conoscenza diffusa dai propri utenti o di far svolgere loro le funzioni di beta tester.

La presenza di un così grande reintermediatore che si pone tra gli utenti e il web, indirizza nove utenti su dieci nella loro navigazione, mostra loro cosa è interessante e cosa no e costituisce uno snodo centrale nel rapporto tra gli editori online e la pubblicità degli investitori, il tutto seguendo regole perlopiù imperscrutabili, potrebbe compromettere la biodiversità informativa della rete.

In determinati casi è noto che Google accetti di filtrare i risultati dell’algoritmo per renderli più o meno conformi ai propri fini. È accaduto in Cina, per compiacere il regime. Il caso cinese sicuramente colpisce per le dimensioni, ma non è l’unico; a parte altri governi totalitari, anche in Europa il motore di ricerca accetta di modificare i risultati naturali del proprio algoritmo per soddisfare le richieste di poteri esecutivi democraticamente eletti. In Francia e in Germania, per esempio, esistono prove di siti oscurati da Google su richiesta delle autorità locali. "Nella maggior parte dei casi si tratta di siti classificati come neonazisti o pedopornografici. Ma ciò che interessa qui non è la correttezza o meno della scelta di censurarli, quanto il fatto che ciò possa accadere".

Recentemente un passo nella direzione della trasparenza riguardo a queste pratiche è stato compiuto con Governement Requests, strumento con il quale Google fornisce le informazioni relative alle richieste che riceve dalle autorità governative di tutto il mondo, riguardo ai dati personali degli utenti e alla rimozione di contenuti. Nella relativa mappa, l’Italia risulta essere al settimo posto, con cinquantasette richieste di rimozione.
"Il punto è che la censura digitale è silenziosa, pulita, educata, non fa rumore e scandalizza meno di quella fisica. Come nota Philipp Lenssen, non vedremo nessuno accendere fiammiferi o bruciare libri per le strade". In un ambiente con miliardi di pagine, è una condotta che, ancora più sottilmente, non è nemmeno identificabile con certezza.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Web 2.0 e pluralismo dell'informazione: contributi e limiti

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Informazioni tesi

  Autore: Elena Cicardo
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2009-10
  Università: Università degli Studi di Palermo
  Facoltà: Scienze della Comunicazione
  Corso: Scienze della comunicazione
  Relatore: Anna Fici
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 104

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