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Il Collaboratore ed il Testimone di giustizia

Il collaboratore di giustizia: aspetti problematici dell’originario assetto normativo

Prima dell’entrata in vigore della L. n. 45\01 la sola provvidenza per coloro che collaboravano con la giustizia per fatti di mafia era costituita dai benefici penali previsti dall’art. 8 del D.L. 13\5\1991, n. 152 convertito, con modificazioni, in L. 12\7\1991, n. 203. Tale attenuante speciale era concessa discrezionalmente dal giudice dopo aver effettuato una valutazione di carattere oggettivo – e cioè sui contenuti della collaborazione ed in relazione all’oggetto del processo – senza prendere in considerazione presupposti o condizioni personali che fossero estranei alla realtà processuale.

La concessione, invece, delle misure di sicurezza e dei benefici penitenziari era subordinata all’acquisizione dello specifico status di “collaboratore di giustizia”, conferito da una apposita commissione, all’esito di un procedimento amministrativo finalizzato alla definizione di uno speciale programma di protezione.

Tale programma costituiva l’unico accesso ai benefici e veniva concesso al fine di garantire l’incolumità personale dei “pentiti”, dal momento che, costoro, collaborando con la giustizia nell’accertamento e nella repressione dei reati mafia, si esponevano a pericoli di ritorsioni da parte dell’associazione mafiosa tradita. In questo modo però si dava avvio ad un pericoloso “circolo vizioso”: i benefeci derivanti dalla collaborazione erano concessi solo in presenza di un programma di protezione, il quale, a sua volta, era concesso solo se risultava un evidente stato di pericolo che ne giustificava l’adozione o la revoca.

Così procedendo, peraltro, veniva a realizzarsi una inscindibile, nonché inopportuna, correlazione tra momento tutorio e prospettiva premiale, con la conseguenza che, in alcuni casi, pur in presenza di un limitato pericolo per il collaboratore (in relazione al quale sarebbero bastate le ordinarie misure di protezione) gli veniva riconosciuto lo speciale programma al fine di permettergli di usufruire dei benefici penitenziari; in altri casi invece succedeva che, venute meno le esigenze di sicurezza, il collaboratore si vedeva revocato il programma di protezione prima che le sentenze emesse nei suoi confronti, sulla base delle proprie dichiarazioni, passassero in giudicato: costui, pertanto, non potendo più fruire dei benefici penitenziari, veniva riportato in carcere.

Già da queste prime considerazioni sembra emergere una incapacità di fondo del legislatore nel dettare una disciplina coerente con l’obiettivo che ha ispirato gli interventi normativi del ’91: contrastare la criminalità mafiosa attraverso il contributo dei collaboratori di giustizia. Da questo obiettivo poi discendono una serie di corollari (come la protezione di colui che decide di collaborare) che il legislatore sembra non aver considerato ed in relazione ai quali risulta evidente più l’esigenza sociale dello Stato di dimostrare la sua presenza che la volontà dello stesso legislatore di emanare una disciplina quanto più esaustiva possibile.

Dal precedente testo normativo, infatti, emerge una profonda confusione che impediva un’organica gestione dei collaboratori di giustizia. In primo luogo, non vi erano norme che stabilivano criteri certi per determinare la revoca del programma di protezione nelle frequenti ipotesi in cui il collaborante – in costanza di programma – commetteva reati o gravi violazioni degli obblighi imposti dal regime di sicurezza.

Conseguenza di ciò era che la revoca o il mantenimento dello status di collaborante dipendeva esclusivamente dal “peso” delle dichiarazioni fornite all’ufficio giudiziario procedente, nonché dall’esigenza di non subire gravi ripercussioni in importanti processi. Non devono stupire pertanto le “oscillazioni giurisprudenziali” della Commissione centrale dell’epoca: essa infatti decideva, prevalentemente, non sulla base del dato normativo, bensì sulla base di valutazioni soggettive (a seconda cioè dell’“importanza” del collaboratore).

In altri termini, se il contributo collaborativo si dimostrava “utile”, il collaboratore manteneva il programma di protezione nonostante, tra l’altro, i rilevanti oneri economici che la sua applicazione implicava (anche quando esso finiva col trasformarsi in una vera e propria rendita vitalizia). In secondo luogo la disciplina della custodia dei collaboratori consentiva che gli stessi, anche se detenuti per reati gravissimi, con semplice provvedimento delle autorità procedenti o del magistrato di sorveglianza, sin dalla fase antecedente a quella della definizione dello speciale programma, potessero essere custoditi in luoghi diversi dagli istituti penitenziari, le c.d. località protette, e, dopo aver conseguito lo status di collaborante, accedere ai benefici penitenziari, anche quando la pena da espiare eccedesse i limiti della legge penitenziaria20.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il Collaboratore ed il Testimone di giustizia

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Informazioni tesi

  Autore: Antonino Verbaro
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2010-11
  Università: Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza e Cremona
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Paola Corvi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 256

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Parole chiave

sistema di protezione
d.l. 8\91
collaboratore di giustizia
videoconferenza
processo penale
l. n. 45\01
testimone di giustizia
telesame
artt. 146 bis 147 ter disp. att. c.p.p.
verbale illustrativo

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