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Dalla storia alla stagione craxiana del partito socialista italiano (P.S.I.): trionfo e crisi fra marxismo, socialdemocrazia e riformismo socialista liberale, di una storia politica secolare della sinistra italiana

I Socialisti italiani fra Frontismo e aspirazioni autonomistiche negli anni del Centrismo e della sua Crisi (1945-1963)

Dopo l'unità d'azione, era così giunta a maturazione la aspirazione storica dei socialisti italiani di giungere, nuovamente ed al più presto, all'unico partito della classe lavoratrice. La manovra fusionista sembrava così procedere senza ostacoli. Tuttavia, non fu dalle correnti riformiste che giunsero le prime reazioni avverse al Partito unico della Sinistra. Fu dalla base che piovvero critiche notevoli alla "liquidazione" del P.S.I.
Alla dirigenza socialista non pareva probabile un'incorporazione socialista al P.C.I. che, però, nonostante più giovane e meno consistente, aveva alle spalle l'U.R.S.S. e s'era dotato di un apparato organizzativo efficace e al passo coi tempi. Si era convinti invece che il P.C.I. sarebbe stato riassorbito nel Partito socialista. In ogni caso, alla luce dei timori della base socialista, l'atteggiamento di Nenni fu conseguenzialmente, di nuovo, prudente.
Pungolato dai predetti timori della gente socialista iniziò così a sottolineare ai quadri del partito la sua paura: "di non essere più noi, in un partito unificato, di non portarci quel nostro senso umano del socialismo, che è la nostra caratteristica e che deve restare la nostra caratteristica".

Ma tanto non era ancora sufficiente per determinare quella che sarà definita quale "crisi del fusionismo". Il P.C.I., infatti, nel frattanto, secondo recente storiografia socialista, riusciva ad egemonizzare e controllare, grazie ad un apparato capillare ed articolato, la base socialista. Secondo tali studi, la maggioranza dei leaders socialisti, votata alla prospettiva fusionistica, tendeva invece ad abbassare la guardia ed a ridurre la propaganda e l'apparato organizzativo.
Nel P.S.I.U.P., di fronte ad una vera e propria pressione del P.C.I. sulla base, la risposta perciò sarebbe stata, nel febbraio del 1946, scarsamente adeguata ad una difesa della autonomia socialista. Prevalse, al XXIV Congresso la c.d. "tesi del Basso" con la quale si veniva affermando, semplicemente, che il problema della fusione era un problema inesistente in quanto si stava attuando solo una "lotta comune per la Costituente, la Repubblica e le riforme di struttura".
Ciò significò la mancata attuazione della progettata fusione (del luglio 1945) ma non significò un sostanziale distacco dalla linea unionistica.
Per Lelio Basso, cioè, l'"unione" sarebbe dovuta avvenire in un secondo tempo: a rafforzamento realizzato sul piano organizzativo del P.S.I.U.P. – che, nell'intanto, poteva solo contare su un maggior numero di iscritti e su un più cospicuo potenziale elettorale. I socialisti, a suo avviso, comunque, non solo non avrebbero dovuto mai perdere all'interno del futuro partito unico la loro autonomia e peculiarità, ma avrebbero dovuto essi, e non i comunisti, assumere la direzione del partito. Il P.S.I.U.P. ad emulare , e per superare, l'organizzazione partitica del P.C.I. si darà così, alle soglie della Costituente, uno statuto provvisorio ed una capillarizzazione territoriale molto simili a quelli del P.C.I. Alle decisioni veniva così statutariamente preposto un nucleo ristretto di dirigenti – che, secondo il Landolfi, erano per la maggiore fervidi partigiani della fusione e dell'unità organica coi comunisti. Era l'approdo socialista al "centralismo-democratico" tipico dei partiti comunisti.

Certo, non mancò una minoranza interna (minoranza non in termini di deputati ma di dirigenza partitica), molto vicina a "Critica sociale", che sostenne, come afferma Mattera, in opposizione anche alla stessa tesi del Basso, la necessità di un partito "radicalmente e realmente" democratico e che si barricasse contro le indebite interferenze comuniste. Tale opposizione diede corpo al c.d. "Progetto Faravelli" attorno al quale si strinsero i riformisti di "Critica sociale", fra i quali Mondolfo, Lami, Preti, Vigorelli e Tursi.
Non riuscirà nello scopo, ponendo invece le basi per il futuro statuto del Partito Socialdemocratico Italiano. I citati riformisti usciranno dal partito che, intanto, vedrà affermarsi la "linea Basso".

Il 25 di ottobre del 1946 il P.S.I.U.P. siglava comunque un secondo patto d'unità d'azione coi comunisti, nel corso di un'adunanza plenaria delle direzioni del P.S.I.U.P. e del P.C.d'I. Agli inizi del 1947, sia per i comunisti, sia per la maggioranza frontista del P.S.I.U.P., il vero nemico era dato dalla "socialdemocrazia". Tale non era, però, per gli "autonomisti" del Partito ancorché avevano, da poco, anch'essi approvato il secondo patto unionistico. Molti di loro "rimedieranno all'errore", solo con la fuoriuscita dal partito, a Palazzo Barberini. Commettendo, così, secondo Landolfi, un nuovo e più grave errore: lasciare ancor più il campo libero all'"offensiva comunista (interna ed internazionale)" verso il socialismo italiano.
In ogni caso, per Landolfi, il "centralismo democratico" del P.S.I. – il P.S.I.U.P. venne, infatti, a ridefinirsi P.S.I., nel maggio del '47, sotto la segreteria Basso e coevamente alla scissione di "Palazzo Barberini" di Saragat – condurrà ad un danno in termini di elettori e di militanti del partito alle elezioni del 1948 (ove si elessero solo 42 deputati socialisti, su un totale di 183 deputati eletti col Fronte popolare c.d. "per la Libertà, la Pace, il Lavoro"). Sicché nel partito cresceva, inesorabilmente, la componente vicina al P.C.I. e che si riconosceva nel giovane dirigente, già bassiano, Rodolfo Morandi.

Il connubio P.S.I. – P.C.I. diviene così ancora più stretto all'indomani della fuoriuscita di comunisti e socialisti dal IV Governo de Gasperi, cosa che determinò, di poi, la presentazione di una lista unica di "Fronte Popolare" alle elezioni del '48 – e che condusse, si ripete, al debole risultato di soli 42 deputati in favore del P.S.I. contro i ben 115 costituenti socialisti del '46.
Nel frattempo, il successo elettorale dei cattolici e dei moderati, imponeva, come dice il Masella la necessità che anche la sinistra si rapportasse a: "una logica di politica internazionale che non [poteva] prescindere da una scelta e dall'appartenenza ad uno schieramento". Dopo un'iniziale unione fra l'U.R.S.S. e gli U.S.A. (principali vincitori del II Conflitto mondiale) si era, di fatto, aperta la dualizzazione Est-Ovest che porterà, sostanzialmente, i Paesi europei alla necessità – pena l'isolamento – di schierarsi, per l'appunto come fece l'Italia con il c.d. "Blocco occidentale" retto dagli States ovvero, come faranno altri, con il c.d." Blocco socialista" retto dai sovietici. Il P.C.I. (e con esso, come si è detto, la maggioranza socialista) che "idealizzava" il bolscevismo sovietico veniva pertanto estromesso dai governi repubblicani della nazione: nonostante avesse avuto un ruolo determinante nella stesura della Carta Costituzionale e nella costruzione della democrazia italiana e nonostante, col P.S.I., rappresentasse politicamente ben più di un italiano su tre. Il P.S.I., intanto, divenuto ormai da un punto di vista elettorale meno consistente del partito comunista, veniva del pari a seguirne le sorti accomunato dalla stessa passione per il socialismo sovietico, dal disegno unionista e dall'esperienza del frontismo.

Informazioni tesi

  Autore: Antonio D'onofrio
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2010-11
  Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Storia contemporanea
  Relatore: Giorgio Caredda
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 237

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