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Tra dolci illusioni e amare realtà: un percorso nel cinema di Federico Fellini da ''Luci del varietà'' (1950) a ''La dolce vita'' (1960)

L'Italia negli anni Cinquanta: dal Neorealismo al Fellinismo

Soffermiamoci un attimo sul periodo storico che fa da background alla filmografia del primo Fellini e su un dato: "il decennio 1946-56 è quello in cui l'afflusso di pubblico nei cinema ha toccato, in Europa, il livello più alto". Se è vero, come si evince da questo record di affluenza, che la sofferenza e le difficoltà proiettano sulla popolazione un bisogno di evasione, il cinema durante il fascismo in un primo momento tollera e addirittura incoraggia l'importazione da Hollywood proprio per far fronte a questa necessità di distrazione dal regime. In una seconda fase, sancita dalla cosiddetta legge "Alfieri" del 1938, il fascismo si impossessa del cinema puntando fortemente sull'autarchia cinematografica a scapito dell'importazione dal-l'oltreoceano e quindi a favore della produzione italiana: sempre, tuttavia, nell'ottica della "distrazione di massa" creando "un habitat ideale, la Shagri-La o il paradiso di milioni di italiani privi di beni materiali, ma capaci di sopravvivere grazie a questa ininterrotta fleboclisi di piccoli sogni di benessere". E' un periodo che rimane impresso indelebilmente nei personaggi felliniani, "molti di voi ricorderanno il 1940, gli anni della guerra, dell'oscuramento e della paura...ma anche quegli anni così tremendi [...] ci riportano alla memoria Fred Astaire e Ginger Rogers..." dice un incanutito Aldo Fabrizi introducendo il numero musicale di Ginger eFred (1985). Queste parole testimoniano un fatto importantissimo: la penetrazione nelle menti della popolazione italiana di vite alternative e illusorie provenienti dagli Stati Uniti, che si depositano e si sedimentano nella cultura popolare. Come lo stesso Fellini ha ricordato:

"Negli anni trenta e quaranta, l'America ci raccontava, nel modo più straordinario, fantastiche novelle per adulti che ci permettevano di sopravvivere alla paralisi e al soffocamento, alla nevrosi, all'incubo che era la vita durante la dittatura fascista. [...] L'America ha inventato i film e una cultura popolare così genuina che appartiene a tutti"

In questa situazione, che la guerra aveva contribuito a mortificare devastando gli studi di Cinecittà (che era diventata un rifugio per sfollati) e le attrezzature, fiorivano tuttavia i semi del neorealismo cinematografico, a cui il giovane Fellini stava contribuendo (e in maniera neanche tanto superficiale viste le otto nominations agli Oscar) in veste di sceneggiatore.

"All'indomani del 25 luglio, senza più macchinari, senza strutture produttive, ed anche senza più un controllo produttivo dall'alto che imponga ai registi ciò che bisognava vedere o non vedere della realtà italiana, il cinema sembra ritornato all'anno zero della sua storia."

Il governo non vedeva certamente di buon occhio il fenomeno neorealista e il crescente apprezzamento della critica internazionale non poteva bilanciare il relativamente scarso successo ai botteghini; insomma, "poveri ma belli" non era una filosofia accettabile nell'ottica dei governi dell'epoca. A questo fatto si aggiungeva un certo fastidio che Stato e Chiesa provavano nei confronti della visione dell'Italia proposta dal neorealismo, quella visione che Andreotti giudicò nociva alla patria e che lo portò alla celebre richiesta fatta a De Sica di "un raggio di sole". Il neorealismo tuttavia aveva conquistato, se non completamente il pubblico, la critica italiana ed internazionale, tanto da trasformarsi da idea di cinema a dogma. L'Italia post-fascista non aveva smarrito il vizio per le egemonie culturali: in 81/2 il critico con la "r" francese Daumier (la "r" del tanto odiato realismo) attacca il progetto di film del protagonista il regista Guido Anselmi perché fuori da quelli che si consideravano dettami del neorealismo ("la mancanza di un idea problematica o se si vuole di una premessa filosofica", "realismo ambiguo" "cosa vogliono realmente gli autori ?"). L'intransigenza della critica cinematografica nei confronti di chi si discostava da questo dogma era leggendaria: persino uno dei padri fondatori del movimento, Rossellini, quando decise di spostare il suo cinema verso altri orizzonti fu chiamato traditore. Il neorealismo tuttavia si esaurì in fretta, più che per un fatto cinematografico (mancanza di autori o di idee) probabilmente per un fatto sociale131: la società italiana del dopoguerra si trasformava con una velocità inimmaginabile e il neorealismo rimase indietro.
Anche il neorealismo, però, nel suo proporsi come alternativa al cinema hollywoodiano aveva, forse in maniera meno evidente, rappresentato il sentimento di evasione dalla realtà che attraversava la popolazione. Ladri di biciclette (V. De Sica, 1948), considerato una delle massime vette del neorealismo, racconta una storia di povertà e di un rapporto tra padre e figlio. Ad un certo punto del film, quando la disperazione si è impadronita di Antonio e del piccolo Bruno, i due decidono di trovare conforto in una trattoria. Il pathos garantito dalla cupa melodia che accompagna la scena precedente va sfumando in contemporanea con i due protagonisti che escono dall'inquadratura, fino ad interrompersi e a lasciar sentire un accordo di diversa natura. Lo stacco prefigurato da quell'accordo e che da luogo al cambio di scena dopo la dissolvenza è vertiginoso: in sottofondo una musica allegra (la canzone napoletana La tammuriata nera) accompagnerà tutta la sequenza e Antonio dice "non pensiamo a niente!" mentre i due ordinano da bere e da mangiare. Con questa scena Antonio entra nell'illusione: è evidente tanto a lui quanto allo spettatore che la bicicletta non verrà ritrovata ma i piaceri (vino e buon cibo) sembrano fargli dimenticare i problemi. Quando uscirà dall'osteria le difficoltà lo assaliranno ancora e con maggiore forza (è significativo che nella sequenza successiva cercherà l'aiuto di una santona, cioè nelle credenze religiose popolari). Alberto, uno dei vitelloni, ha una situazione familiare problematica, la sorella ha una relazione "scandalosa" con un uomo sposato e la madre ne soffre molto; quando entrerà nel teatro dove si svolge la festa di carnevale si dimenticherà di tutto questo ma, finito tutto, gli si paleserà di fronte la scena della sorella che sta scappando di casa con il suo uomo. La situazione è simile ma con una differenza: Antonio è povero ma sa ciò che è: un operaio, un padre e un marito. Alberto invece non è povero ma non ha ancora trovato un'identità, è rimasto imprigionato in un continuo carnevale ("chi sei?" chiede infatti a Moraldo, volendo dirlo a se stesso).

Questo brano è tratto dalla tesi:

Tra dolci illusioni e amare realtà: un percorso nel cinema di Federico Fellini da ''Luci del varietà'' (1950) a ''La dolce vita'' (1960)

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Informazioni tesi

  Autore: Filippo Guidera
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2010-11
  Università: Università degli Studi di Pavia
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Filologia moderna
  Relatore: Federica Villa
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 169

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