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Dall'analisi filosofica della felicità alla prassi educativa

La felicità di questa vita

"La felicità è di questa vita. Perché è qui, in questo mondo, che l'uomo ne fa esperienza, ma ancor più perché è la vita stessa a essere felice. La vita, infatti, vuole eternamente se stessa, si vuole in ciascuno di noi, si vuole soprattutto oltre ogni dolore. Agli uomini capita di vivere attimi assoluti, emozioni intense: un'improvvisa gioia, un'ardente passione, un successo o un'impresa riuscita, una tenera intimità, una confortante amicizia, una sensazione di generale benessere". Varie sono le modalità di sentirsi felici – spesso non si sa neppure il perché – e tuttavia quando si è felici sembra di crescere illimitatamente, di non avere quasi confini. Di qui un piacere spontaneo d'esistere.
Nelle manifestazioni della felicità esiste un prisma fatto di modi diversi per sentirsi felici. Una delle ragioni per cui gli uomini, molte volte, vivono infelici è quella per cui si arriva a ritenere che si può essere felici in un solo modo o che solo una certa cosa possa dare la felicità. Chi ragiona così normalmente finisce per disperarsi, perché si fissa su di una sola modalità della felicità finendo per escludere dal proprio orizzonte esistenziale quell'elemento di improvvisa ricchezza che è la felicità stessa.
Gli uomini, dunque, sanno bene cos'è la felicità, perché – poco o tanto – capita loro di essere felici. Ma proprio perché gli capita, essi ritengono che la felicità sia unicamente una cosa che capita. Di qui la convinzione che la felicità non è di questo mondo e, per quel tanto che gli appartiene, è così breve da essere più inganno che realtà. Eppure, presso gli uomini, nonostante le asprezze e le difficoltà non viene mai del tutto meno il piacere di vivere, una brama d'esistere che è più forte dello stesso dolore. Questo è un segno che dà da pensare, mostra come la vita voglia inequivocabilmente se stessa e si voglia in ciascuno di noi. La felicità la si gusta appieno nell'attimo, e tuttavia non bisogna dimenticare che felice, in senso stretto, lo si dice di una vita. Non è dunque solo nell'attimo che cade che risiede la felicità, ma, al contrario, la si guadagna e si dispiega nel corso di una vita intera, coincide con la capacità che gli uomini hanno di condurre a realizzazione e a pienezza la loro esistenza. Felice, dunque, è una vita intera: perché questo accada, bisogna saper modulare insieme gioia e dolori, fallimenti e successi, bisogna saper tessere con sagacia la trama della propria esistenza, disegnarne il ricamo. Se la felicità è questo, allora è meno occasionale di quel che si pensa e, soprattutto, è frutto della virtù. Evidentemente della virtù intesa nel suo significato originario, elaborato presso i Greci, di abilità, di perizia nel fronteggiare e aggirare le difficoltà. Per essere felici bisogna in qualche modo divenire dei virtuosi dell’esistenza, così come si definiscono virtuosi un grande pianista, un acrobata e in genere tutti coloro che sanno rendere facile il difficile, sanno trasformare le difficoltà in stimolo, la fatica in bellezza, in opera d'arte. La virtù è dunque da intendere come un grande esercizio di stile, un'estetica dell'esistenza.
Nella storia della filosofia e nella storia della cultura è sempre esistita l'utopia della felicità. E', questa, una situazione in cui si immagina di riuscire ad eliminare dal mondo un tipo di dolore, ossia il dolore inflitto, cioè il dolore che gli uomini si infliggono gli uni agli altri. Le rivoluzioni, sostanzialmente, hanno cercato attraverso un modello regolativo di giustizia di togliere dal mondo un certo tipo di dolore. Il dolore che gli uomini si producono, facendosi reciprocamente torto. Esiste, però, un tipo di dolore, nella vita, che, pur ammettendo di riuscire ad arrivare ad una situazione come quella concepita ed auspicata dalle utopie politiche, non si potrà mai eliminare; ed è il
dolore naturale, la morte. Rispetto a questo tipo di dolore, la felicità è negata per sempre o no? Vale la pena citare un pensiero importante di Nietzsche: "Non bisogna interpretare la felicità soltanto come soddisfazione".
La soddisfazione è un'idea sonnolenta della felicità è come un riempirsi la pancia; la felicità bisogna interpretarla come ascesa. Allora la capacità di vincere il proprio dolore, diviene un modo di crescere. Da questo punto di vista lo stesso dolore può diventare un ingrediente della felicità. L'uomo è felice - dice Nietzsche - non quando è sazio, ma quando è capace di vittoria. Allora nel vincere sé stessi, nel rafforzarsi attraverso la sofferenza, si ha un'idea più alta e più forte di felicità. Non dovremmo pensare che la felicità stia soltanto nel godimento, nella soddisfazione immediata, ma dovremmo renderci in grado di concepire la felicità nella capacità di vittoria. Quale modo più grande di accrescersi del vincere, del superare l'ostacolo? Se noi intendessimo la felicità soltanto in termini di fruizione ne perderemmo il più alto messaggio. Nella felicità può esserci il dolore. Il dolore del protendersi, come quello dell'atleta. Ecco perché la felicità pigra, rappresentabile dall'atto puro dell'ingoiare, non può essere la felicità vera. La felicità è nel tendersi. In tutto questo può giocare la sua parte anche la stessa sofferenza.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Dall'analisi filosofica della felicità alla prassi educativa

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Informazioni tesi

  Autore: Vincenzo Scarcella
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2010-11
  Università: Università degli Studi Roma Tre
  Facoltà: Scienze della Formazione
  Corso: Scienze dell'educazione e della formazione
  Relatore: Camilla Briganti
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 313

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