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Il corpo a più dimensioni. Dal corpo vivente alla malattia in Individui, Gruppi e Istituzioni.

Falso Sé e Falso corpo: da D. Winnicott alla Psicosomatica

Nella disamina del raffronto freudiano tra paralisi organiche e isteriche Assoun (1997) ci regala una descrizione particolarmente intensa e suggestiva dell’isteria, che pare tuttavia non poter essere applicata oggi ai disturbi psicosomatici, per i quali si sta cercando dunque una collocazione teorica (metapsicologica) più esaustiva ed esplicativa.
“Qual è questo corpo che “crivellato” dal sintomo, trasforma un corpo unificato e organizzato in un’unità gerarchica e in una saggia programmazione dei suoi distretti […]? C’è da supporre che l’isterica reinventi un corpo nel corpo, che si drappeggi con la sua stessa stoffa. […] Dunque: l’isterica, certo, fa come se l’anatomia non esistesse […]. Essa eccelle, infatti nel ridisegnare le mappe del corpo, per i bisogni del suo sintomo”.
Nel risalire a ritroso alla fonte del disturbo psicosomatico e delle ragioni inconsce delle sue peculiari manifestazioni, entra inevitabilmente in gioco il riferimento al Sé ed alla sua costituzione difettosa o distorta. Winnicott (1965) muove da una concezione del Sé inteso come forma esperienziale fondata sull’insieme delle rappresentazioni individuali aventi per oggetto la propria esistenza psicocorporea e relazionale, necessaria a pensarsi in maniera unitaria e continuativa. Esso viene chiaramente distinto dall’Io con cui matura di pari passo e, come abbiamo sottolineato in precedenza, per potersi strutturare deve trovare corrispondenza nella risposta positiva e non frustrante della madre che nel suo passaggio da ambiente ad oggetto permette al bambino di osservare ed interiorizzare delle specifiche competenze relazionali, da esercitare poi nella vita adulta. Come sostiene anche Winnicott (1965) ciò “condurrà naturalmente all’istituzione nell’individuo di un Sé che ha un’esistenza continua, che acquisisce un’esistenza psicosomatica e che sviluppa la capacità di mettersi in rapporto con gli oggetti”. Tale sviluppo, però, può incontrare degli ostacoli nel suo incedere armonico, conducendo alla strutturazione di un Falso Sé come difesa contro ciò che all’individuo si presenta come impensabile; esso può derivare dall’importanza estrema che le aspettative altrui assumono per l’individuo, che riflettono la struttura dell’educazione sociale, e può giungere a sovrapporsi a o contraddire l’originale senso del sé, connesso alle radici profonde dell’essere individuale. Scopo dell’esistenza del Falso sé è proteggere il Vero Sé, mantenuto ben nascosto, dal rischio di annientamento al quale richieste ambientali pretenziose e pressanti potrebbero esporlo, sfruttandolo. È a questo punto che il Sé che “si trova naturalmente collocato nel corpo, […] in certe circostanze può dissociarsi dal corpo, o il corpo da esso” (Winnicott, 1970).
Attraverso questa prospettiva, dunque, sarebbe plausibile ipotizzare che la malattia psicosomatica sia una via attraverso la quale salvaguardare il proprio sé fragile e precario da pericoli esterni indotti da un ambiente non “sufficientemente buono”, piuttosto che come l’esito disfunzionale del ricorso a strategie più adeguate ed adattive. Di fronte ad una “realtà disoggettualizzante […] carica di pura cultura di istinto di morte” rappresentata dalla “realtà collettiva indifferenziata e de-soggettivizzante”, l’Io reagisce ricorrendo a modalità definite da Smadja e coll. come “operatorie” (Smadja, 2001).
Sul versante psicopatologico grave, questo discorso trova un riferimento nel “falso narcisismo” di Green (1993), identificato con il nome di narcisismo negativo, che indica un movimento diretto all’inesistenza, al vacuo, al “bianco”.
L’autore lo definisce ulteriormente come “aspirazione al livello zero”, espressione di una funzione disoggettualizzante, opposta alla funzione oggettualizzante di legame quale mira primaria delle pulsioni, a cui l’oggetto si offre concretamente come supporto d’esistenza nel reale; essa sarebbe rivolta non solo agli oggetti o ai loro sostituti, ma anche allo stesso processo di oggettivazione. Dietro a questa funzione si celerebbe dunque il lavoro costante delle pulsioni di morte, controparte imprescindibile delle pulsioni libidiche.
Anche Smadja (2001) parla di una condizione operatoria come uno stato profondamente anti-libidico, dove “la pulsione di morte agisce “con meccanismi di negativizzazione, di neutralizzazione e di estinzione delle cariche di eccitamento interno”. I rapporti tra pulsioni di vita e di morte appaiono qui in tutta la loro forza e complessità.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il corpo a più dimensioni. Dal corpo vivente alla malattia in Individui, Gruppi e Istituzioni.

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Informazioni tesi

  Autore: Sara Loffredo
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2011-12
  Università: Università degli Studi di Napoli
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Psicologia
  Relatore: Giorgia Margherita
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 160

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