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Panoramiche d'interni. Approfondimenti e divagazioni sul cinema e l'unità di luogo

Buried di Rodrigo Cortés ­‐ 2010

Il film rappresenta l’estremo della claustrofobia raggiungibile in un’opera unique stage, il punto di non ritorno. Un ambiente, un personaggio, nessun movimento.
La storia racconta di Paul, un americano autista di camion in missione in Iraq, che si ritrova chiuso in una cassa di legno sotto terra, con un cellulare, una matita e un accendino. Grazie a questi tre elementi deve capire com’è finito in quella bara, per quale motivo e come fare a guidare i soccorritori fino a lui per poterlo liberare.
La claustrofobia più totale viene introdotta già nei titoli di testa: sono linee sottili che tendono verso il basso su uno sfondo scuro che conferisce un’idea di profondità non ben definita e di incalzante discesa verso l’ignoto. Da questi titoli lo spettatore si lascia incuriosire, ma una volta terminati lo schermo rimane nero. Per trenta secondi i presenti in sala immaginano che ci sia qualcosa che non va con il proiettore perché lo schermo è nero e silenzioso, dopodiché si comincia a sentire un respiro, prima più debole poi più affannoso, infine il respiro riflette chiaramente il panico di una persona. Dopo due interi minuti di buio e qualche tentativo di accensione di uno zippo, la scena si concede alla luce con un primissimo piano in “giallo e nero” dell’occhio del protagonista terrorizzato. Già a questo punto metà dei più deboli di cuore tra gli spettatori ha lasciato la sala alla ricerca di aria respirabile, perché il senso di soffocamento invade direttamente lo spettatore fin dai primi minuti della pellicola.
Un lentissimo zoom all’indietro mostra l’angusta prigione di Paul (Ryan Reynolds): una bara di legno che non concede quasi nessun movimento se non qualche mossa compulsiva che il protagonista tenta per liberarsi. Con un taglio la camera si posiziona sul volto dell’uomo che, riuscitosi a liberare dal bavaglio, urla un «HELP» straziante. Questi primi struggenti minuti sono l’alternativa che il regista - Rodrigo Cortés - propone all’establishing shot del cinema classico. Informa lo spettatore sulla situazione e sul luogo di svolgimento dell’azione, attraverso l’uso di uno zoom all’indietro talmente costretto spazialmente e temporalmente che appare quasi come un affronto alla durata e all’estensione del dolly classico che esplora il paesaggio dove la storia avrà poi il suo svolgimento.
Per altri cinque minuti lo spettatore subisce l’angoscia di lamenti strozzati mentre la luce dell’accendino lascia al protagonista la possibilità di esplorare visivamente il microscopico spazio a sua disposizione. Al decimo minuto ancora buio totale.
La nuova scena partirà tenendo predominanti i toni dell’azzurro grazie al display del cellulare, unico strumento di interazione verso l’esterno concessa al personaggio. Paul inizialmente non riesce a raggiungere nessuno e si scontra con una serie di segreterie telefoniche o di operatrici ottuse, in una parodia beckettiana della burocrazia americana. Un volta creato un contatto è il mondo esterno che lo chiama cercando di salvarlo. Il film si svolge interamente nella bara, non ci sono ellissi temporali di alcun tipo, lo spettatore è costretto nella cassa esattamente come il protagonista. Tra tutti i film analizzati questo è l’unico che non potrebbe mai essere rappresentato a teatro, l’opera si sviluppa nella sua disarmante e arbitraria bellezza solo grazie alle soluzioni registiche che propone Cortés; qualsiasi spazio scenico teatrale, per quanto angusto, non potrebbe rendere l’idea di intrappolamento che pervade l’intera opera.
Buried è praticamente un’opera prima. Il regista, che aveva precedentemente diretto alcuni cortometraggi e collaborato come scrittore e montatore in lungometraggi, dà prova di versatilità e coraggio nel produrre, dirigere e montare il film, curandone dunque personalmente ogni aspetto in maniera minuziosa. La pellicola è stata resa possibile da una co-produzione Usa-Spagna-Francia, le riprese sono avvenute interamente in Spagna, a Barcellona, e sono durate diciassette giorni. Cortés ha ammesso di essersi ispirato fortemente a Hitchcock e in particolare a Nodo alla Gola e Lifeboat. Il regista utilizza infatti alcuni schemi tradizionali del maestro del brivido come lo sguardo voyeuristico, l’effetto vertigo e punti di vista e quadri che creano una forte tensione e generano angoscia. [...]

Questo brano è tratto dalla tesi:

Panoramiche d'interni. Approfondimenti e divagazioni sul cinema e l'unità di luogo

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Informazioni tesi

  Autore: Asia Marta Muci
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2011-12
  Università: Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM)
  Facoltà: Scienze della Comunicazione
  Corso: Scienze della comunicazione
  Relatore: Gian Battista Canova
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 62

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Parole chiave

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filosofia
aristotele
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